«Birra e Coca cola», così in città si ordinavano dosi di droga

Birra, coca cola o bottiglie di vino. Se a qualcuno fosse capitato di ascoltare le conversazioni telefoniche di qualcuno dei soggetti arrestati dalla squadra mobile della polizia nell’ambito dell’inchiesta «Fersina», che la scorsa settimana ha portato all’arresto di otto persone (4 sono ancora ricercate, mentre altri cinque tunisini sono finiti in carcere con l’operazione Belvedere per spaccio e un quinto risulta latitante) avrebbe potuto pensare che si trattasse del gestore di un bar o di un ristoratore. Dietro quegli «ordini» di bevande - «prepara 5 birre e 2 coca cola» oppure «porta due bottiglie di vino bianco» - secondo gli investigatori non c’erano però clienti da dissetare, ma tossicodipendenti in cerca della dose di cocaina o eroina.

Quando al telefono parlavano di «quattro birre», si riferivano a 4 grammi di cocaina, mentre la Coca Cola, di colore scuro, sarebbe stata usata per chiedere una dose di eroina brown. Un «codice» che gli investigatori dello Sco, nel corso di circa un anno di indagini, hanno imparato a riconoscere e decifrare, trovando poi riscontro di quanto veniva chiesto al telefono agli arrestati anche in occasione di alcune perquisizioni. Come è successo dopo l’arresto di una delle sei persone accusate di associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, la 30enne bulgara Neli Stefanova Radeva, ai domiciliari perché in attesa di un bimbo.

Parlando al telefono Ali Sami, il 36enne marocchino che per l’accusa era uno dei promotori del gruppo criminale, avrebbe cercato di informarsi sulla sorte delle 25 bottiglie di vino bianco custodite in casa. Ma nell’abitazione, la polizia, non ha trovato pregiate bottiglie di vino, ma 25 grammi di cocaina, ben nascosta dietro al frigorifero. Altre volte, per chiarire che la droga era pronta e di buona qualità, gli arrestati avrebbero detto di avere «una bella macchina» o invitato l’interlocutore a vedersi «per un aperitivo». Per informarsi sull’arrivo della cocaina bastava abbozzare queste parole: «Hai l’orologio bianco?».

La clientela, come emerso nel corso della conferenza stampa di giovedì, certo non mancava. A dimostrarlo le migliaia di cessioni di droga contestate (1.300 per un solo arrestato). Anzi, il gruppo di nordafricani e trentini si sarebbe guadagnato la fiducia di molti tossicodipendenti per la qualità offerta. Al punto che il 47enne tunisino Mourad Akili, che secondo l’accusa era uno dei due «capi», avrebbe avuto un nutrito gruppo di fedelissimi clienti registrati in rubrica. Persone alle quali si sarebbe rivolto in modo confidenziale, chiamandole per nome. Dal mattino alle 4 di notte - secondo l’accusa - il suo telefono avrebbe squillato in continuazione. Dall’altra parte decine di clienti, a volte anche un centinaio, in cerca della dose.

E la «fama» del gruppo sarebbe arrivata perfino a Bolzano, tanto che il tunisino avrebbe consegnato la droga anche a clienti fidati del capoluogo cittadino. E gli affari andavano a gonfie vele, tanto che spesso - durante le intercettazioni ambientali - capitava di sentire il rumore della macchinetta conta soldi che girava «vorticosamente». La droga destinata alla piazza trentina arrivava dalla Lombardia. Per dare meno nell’occhio spesso i galoppini si sarebbero spostati utilizzando veicoli noleggiati. Il gruppo avrebbe privilegiato furgoni simili a quelli utilizzati da artigiani o operai, per passare inosservato. E i due nordafricani ritenuti promotori dell’associazione - proprio per lasciare meno tracce possibili - si avvalevano di emissari sempre diversi. Chi raggiungeva la Lombardia per ordinare il carico non si occupava anche del trasporto. Anche le telefonate erano ridotte all’osso: cellulari spenti dopo l’acquisto della sostanza stupefacente e schede telefoniche sostituite in continuazione e intestate a nomi di fantasia.

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