Le mele senza pesticidi rendono il 20-30% di più

di Domenico Sartori

Quando deve effettuare un trattamento, nel rispetto del protocollo del biologico, impiegando polisolfuro di calcio o altre sostanze, consulta il suo iPad. «È un software messo a disposizione dalla Fem (la Fondazione Mach di San Michele all'Adige), sezione produzioni bio che fa capo a Luisa Mattedi per la frutticoltura», spiega Josef Espen dal suo frutteto di Romagnano.

Il programma, collegato alle stazioni di rilevamento delle condizioni meteo (umidità, piovosità, ventosità, etc.) «suggerisce» quando è necessario intervenire. «Il "quando" è fondamentale, perché noi produttori biologici ragioniamo su come si comporta il patogeno, per intervenire nel momento più sensibile, la cosiddetta finestra di germinazione».

Ecco spiegato perché nell'anno nero per la ticchiolatura, il 2013, che ha devastato i meleti trentini, i produttori bio se la sono cavata molto meglio dei produttori convenzionali. All'ingresso dei filari ci sono le reti antinsetto con cui Espen ha risolto il problema della carpocapsa (il «verme del melo») che gli rovinava tra il 20-30% della produzione.

L'esperienza di Espen e di suo fratello Giorgio , che curano i 15 ettari di frutteto a valle di Romagnano, testimonia come la «via» bio possa essere seguita non solo nella viticoltura, dove è relativamente meno problematica. Espen, che è consigliere della Sft sca, s'è laureato in agraria a Firenze ed è convinto che si debba bandire ogni approccio ideologico: «Consideriamo il biologico una opportunità, che può diventare una soluzione in prospettiva».

Espen, quali varietà coltivate?
«Soprattutto varietà Gala e Braeburn».
Quando è cominciata la produzione «bio»?
«La conversione triennale è partita nel 1999».
Perché l'avete fatto?
«Era un momento di grave crisi, il bio ci parve un'opportunità: un passo naturale avendo sviluppato la lotta integrata».
Qual è lo sbocco di mercato?
«Germania, Nord europa, Inghilterra... L'Italia non è ancora così ricettiva, ma le cose stanno cambiando. Melinda è stata bravissima a rinnovare gli impianti, per puntare sulla qualità. Ma il mercato è oggi più esigente, cerca una qualità a tutto tondo, data non solo dall'aspetto estetico. Ad esempio, in Inghilterra vogliono le Gala bio, più zuccherine e con una durezza adeguata».
Quanto rende?
«La remunerazione per il produttore biologico è tra il 20 e il 30% più alta del convenzionale. Ovviamente, i costi di produzione sono però più alti».
Quali costi?
«Gestione molto più manuale del prodotto, sfalcio meccanico del filare, maggior diradamento manuale, maggiore controllo del raccolto. E all'operatore bio serve autonomia e una buona preparazione: gli errori si pagano cari».
Perché in Trentino la frutticoltura bio fa più fatica ad affermarsi? C'è poca disponibilità a cambiare da parte dei produttori?
«Oggi, in Trentino, la scarsa propensione ad innovare è un dato generale, non solo dell'agricoltura, che è tendenzialmente conservatrice: un suo limite, ma anche un suo punto di forza. Credo che il produttore abbia necessità di verificare sul campo, gli serve più informazione e comunicazione. Senza pregiudizi ideologici. Lotta integrata e biologico possono convivere: il biologico porta un'innovazione che l'integrata convenzionale può assumere, anche per trasformarsi, in prospettiva, in produzione bio».
Quali sono i problemi più grossi che ha incontrato?
«Quelli delle malattie fungine, come la ticchiolatura. Nel tempo, però, aumentando il numero di produttori in zona, si sono condivise esperienze, e c'è la supervisione della Mach. Il supporto al produttore è fondamentale. Il nuovo presidente della Mach, Segrè, s'è impegnato a rafforzare la sezione bio della Fondazione: va fatto».
Anche perché ci sono oggi più aziende?
«Sì, oggi la zona di Ravina-Romagnano sta diventando un distretto vero e proprio: la maggior parte delle aziende è bio. Del resto, un quinto dei terreni agricoli del catasto di Trento è oggi bio».
Cosa dovrebbe fare la politica?
«In Val Venosta, dove sono più avanti, le mele bio sono arrivate all'8% del totale, e quest'anno è stato avviato un processo importante, per decine di ettari, di ulteriore conversione. Da noi, con le proprietà più frammentate, è più difficile. Ma bisogna che produttori e politica, insieme, si interroghino sul presente e sul futuro dell'agricoltura trentina, per concepire un progetto su più fronti: reddito, tecniche sostenibili, aspetti ambientali. Il quadro è complesso e la crisi della frutticoltura si fa sentire. Meno nel bio, ma è reale: le pesche vanno a 20 centesimi al kg! L'errore più grave è negare a priori le produzioni bio mettendole in antitesi con le altre. Conta più il dialogo che le norme. Anche per le distanze nei trattamenti: si deve far capire che l'agricoltura è un valore per la città, per far convivere produttori e residenti».

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