Stava, fango e morte: «Correte qui è venuto giù il mondo!»

di Maurizio Struffi

Il giornalista trentino Maurizio Struffi ha lavorato a lungo all’Adige e per la Rai. Nel racconto di queste pagine ricorda - a trent’anni di distanza - quando alla redazione del nostro giornale arrivarono le prime notizie sulla tragedia di Stava, la corsa sul «posto» e le drammatiche conferme dell’orrore che - tra i primi giornalisti - vide in Val di Fiemme. Un racconto dal quale emerge un ricordo ancora vivo, con un’attenzione particolare alle vittime: 268 persone che furono trascinate giù da un’immensa colata di fango.

«Eravamo pochi in redazione, un giornalista allo sport, un altro agli spettacoli, in cronaca solo io e Armando Detassis. Gli altri colleghi erano già andati a casa per il pranzo. Appena rientrato dal mio «giro» di giudiziaria senza uno straccio di notizia mi ero seduto svogliato alla scrivania, faceva caldo e non avevo neppure voglia di uscire a mangiare un panino.

Squilla il telefono di Armando. Lui risponde, borbotta qualcosa, depone la cornetta con una bonaria imprecazione: «Un lettore dice che nella zona di Tesero è caduta una valanga…». Subito dopo gli squilli riprendono, stavolta sul telefono mio. È il centralinista: «Credo ci sia qualcosa di grosso, ti passo uno, è agitato». Era un amico di Cavalese, agitato davvero: «Maurizio sai cosa è successo a Stava? Ci sono dei morti, è crollata una diga, un disastro». Una diga? A Stava? Richiamo Armando, ma siamo abituati alle segnalazioni esagerate e la nostra reazione è pacata. Penso al crollo di una baita, a qualche ferito, ad una «normale» notizia di cronaca nera.

Faccio il numero dei carabinieri di via Barbacovi, la risposta è affannata: «Non ho tempo, non ho tempo…». Dobbiamo andar su, dev’essere grossa davvero. Chiamo Roberto Bernardinatti, il fotografo e ci avviamo, cercheremo di saperne di più al primo distributore, in autostrada.
Diciamo agli altri di avvertire il direttore, montiamo sulla mia macchina e partiamo. Tutto normale per i primi chilometri di Autobrennero. In vista dell’area di servizio Paganella rallento per ritelefonare ai carabinieri, ma prima di svoltare ci sorpassa una «gazzella» a sirene spiegate seguita da due furgoni dell’Esercito. Accelero di scatto, mi metto nella loro coda e non li mollo più. Al casello di Egna un varco è aperto, la «gazzella» si infila, i due furgoni dietro, passiamo anche noi, pagherò la multa ma non possiamo lasciarci seminare.
La corsa dura poco. Superato il grande tornante panoramico che domina la valle dell’Adige a farci rallentare è una lunga teoria di mezzi dei vigili del fuoco, della Croce rossa, della polizia, dei carabinieri, dell’Esercito, del soccorso alpino.

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Cristo, cosa è successo a Stava, cosa diavolo è crollato che non ci sono invasi d’acqua? Smettiamo di interrogarci, proseguiamo incolonnati ma abbastanza veloci e ad ogni curva ci guardiamo indietro perché si è formata una colonna di mezzi di soccorso anche alle nostre spalle. Un chilometro prima di Tesero un vigile ci blocca, ma c’è un minuscolo slargo, la macchina ci sta senza intralciare il traffico, smontiamo e subito ci riempie le narici uno strano odore di fango che sovrasta persino la ressa dei tubi di scappamento. È passata da poco l’una e mezza.

Ci incamminiamo rapidi, quasi correndo. Arriviamo al ponte di via Roma, proprio quello che supera il rio Stava. Le protezioni in ferro sono quasi tutte divelte, è gremito di gente che guarda, da una parte e dall’altra. Ancora non capiamo, ci infiliamo a spintoni e vediamo sgomenti la valle pennellata di fango. Un turista parla di una diga crollata. Ma quale diga, dove mai c’era una diga qui…   

Alla fine del ponte c’è una pasticceria, il muro gronda degli schizzi di melma, come i pantaloni dell’uomo che ci sta appoggiato. È un vecchio, si capisce che è del posto. «È vegnù zo tut…tut…». Gli chiediamo cosa, ma sa ripetere solo «tut». Sulla soglia della pasticceria una signora che ha sporche solo le scarpe ci spiega che lui è lì immobile da un’ora, gli hanno dato un bicchiere d’acqua ma non si sposta, pare abbia visto crollare metà della sua casa ma non sa chi dei suoi fosse dentro, certo è che lo aspettavano a «disnar».

Ancora non sappiamo cosa sia quel «tut», ci incamminiamo in una confusione di persone silenziose, si sentono solo ordini lanciati da grida perentorie: «Voi di qua, voi lassù, scaricate le pale, mascherine e guanti, non dimenticateli…! Seguiamo quelle voci anche noi, ma prima di incamminarci lungo la strada che da Tesero porta a Val Stava Armando entra in un bar per chiamare il giornale: il centralinista lo avverte che già da un po’ sono partiti per Tesero anche Sandra Tafner e Toni Cembran.

L’odore di fango ammorba l’aria, è dolciastro, indefinito. Lungo la salita vediamo che la pennellata grigia si allunga a monte, non riusciamo a capire dove cominci, è sempre più informe e gonfia, di alberi soprattutto, di pezzi di muro, porte, armadi squarciati: galleggia immobile una mezza parete piastrellata, probabilmente di un bagno e in questo mare di melma orrenda quelle piastrelle sono quasi pulite.

Il richiamo del fotografo ci fa rivolgere lo sguardo verso una casa, piuttosto in alto rispetto al letto del torrente ma dove la vallata disegna una svolta, una sorta di mezza chicane che ha fatto risalire l’onda di fango fino alla base del muro spiaccicandovi contro un’automobile. Continuando a camminare raccogliamo spiegazioni ed apprendiamo che la «diga» erano in realtà due grandi muraglioni in terrapieno, uno sopra all’altro come due giganteschi scalini, eretti per contenere i residui liquidi della miniera poco distante, a Prestavel, dove si estraeva la fluorite.

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Bacini di contenimento, ci dice uno con aria da tecnico, ma per capire quanto fossero grandi e cominciare ad intuire le dimensioni della tragedia che il loro crollo aveva provocato, dobbiamo arrivare sudati e ansimanti oltre la chiesetta che si affaccia sul rio Stava, un torrente che non creava problemi neppure quando i temporali lo ingrossavano. Adesso è scomparso sotto un mare di fanghiglia in cui si muovono a stento centinaia di uomini che scavano, gruppi che si ingrossano perché lungo il tratto ancora praticabile della strada che risale il fianco della vallata continuano ad arrivare camion e ruspe.

Voci e rumori sono sovrastati dal fragore degli elicotteri: quelli dell’Esercito atterrano su spiazzi d’erba, scaricano soldati e ripartono, quelli della protezione civile trentina e altoatesina si abbassano e si rialzano dove ancora a piedi non si arriva perché si affogherebbe. Cercano segni di vita, qualcuno da salvare.

Ma chi? Quanta gente può esserci qui sotto per motivare un’operazione di soccorso tanto imponente? Le voci che raccogliamo sono caotiche e catastrofiche, nessuno ha certezze…

Ho perso di vista sia Roberto che Armando. Mantenendomi appena poco oltre i prati infangati continuo a camminare verso monte fino a scorgere il luogo dove la valanga si era originata. Muraglioni in terrapieno però non ce ne sono, difficile capire come fossero. Sulla mia destra scorgo due persone, una donna anziana ed un uomo, il figlio. Lei tiene mento e guance tra le mani ha gli occhi persi nella valle.
«Scusate, sono un giornalista dell’Adige ma non sono di qui, non capisco ancora cosa sia successo…». La donna non muove neppure un ciglio. Risponde lui.

«Vede, qui siamo proprio sopra la zona degli alberghi, c’erano l’Erica, il Miramonti e lo Stava e poi c’erano le case della frazione, le strade, il parco giochi, baite, tanti alberi…Vede laggiù dove affiorano i cingoli di una ruspa? Lì c’era la casa di un’amica di mia mamma e fino a mezzogiorno era lì anche lei, era andata a portarle la verdura dell’orto che le regalava quasi tutti i giorni. Ne abbiamo tanta… Ha fatto appena in tempo a tornare su, a piedi, vede qui è ripido. Ma non era ancora rientrata quando è successo il finimondo..». «Avem sentì en rumor, su vers Prestavel, come se l’avesa tonezà sototera. E po’ è vegnù zo el mondo, tut quel che gh’era nei bacini dela miniera, ‘na montagna de paltam che ha spazà via la val».

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Ascolto incredulo, guardo la donna sempre immobile con il mento e le guance tra le mani e gli occhi fissi, faccio fatica a parlare: «E…morti? Si sa quanti morti?». «Quanti no so, ma tanti».

Cammino ancora un po’, poi mi siedo per riprendere fiato, o meglio per riprendermi dall’enormità di ciò che ho sentito. Comincio a pensare a quello che dovrò scrivere, non riesco a mettere in ordine alcun pensiero. Guardo verso il lato opposto della valle dello Stava e mi accorgo di una lunga, surreale fascia di abeti: per tre quarti della loro altezza, una dozzina di metri almeno, hanno lo stesso colore grigiastro della melma ormai immobile che riempie la valle. Rispetto ai rami più alti il letto dello Stava era almeno trenta di metri sotto. Deve essere stata una colata immane.

Cerco di immaginarmi la scena. Dovrò descrivere quello che vedo ma anche ciò che non visto. Non ho ancora preso neppure un appunto, mi confronterò con gli altri colleghi, è un dramma che ci impegnerà tutti al giornale e per molti giorni. Ne vedo arrivare un paio, ho la sensazione che mi stiano cercando. Sono preceduti da due turisti che parlano tra loro sommessamente, le parole ammorbidite da un velo d’angoscia.

«Lì sotto c’era l’albergo dove ho trascorso una bella settimana l’anno passato, quest’anno sono in appartamento. La sala da pranzo aveva la vetrata che guardava proprio su, verso Prestavel… li vedevamo i bacini, ma nessuno aveva mai pensato che ci fosse da averne paura».

Mi raggiunge Toni Cembran. «Andiamo giù, in paese stanno arrivando camionate di bare, dobbiamo sentire parenti, sopravvissuti, tanto qui non c’è più niente da vedere…». Mi alzo lentamente pensando ai turisti che stavano prendendo posto in quella sala da pranzo, ai camerieri tra i tavoli. Penso agli istanti di terrore che devono aver vissuto vedendo la morte precipitare su di loro sotto forma di un terrificante muraglione di melma...

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Ci riavviamo verso Tesero mentre centinaia e centinaia di uomini continuano a scavare nel fango ed a trovare cadaveri. Camminiamo piano ed in silenzio con lo sguardo sempre rivolto a quell’orrendo cimitero. Incontriamo Alberto Folgheraiter assieme ad un operatore Rai, ci salutiamo frettolosamente, non c’è né tempo né voglia per i convenevoli.
Impieghiamo quasi un’ora ad arrivare alla scuola elementare. La palestra è piena di corpi allineati e coperti da lenzuola. I carabinieri di Laives tengono lontana la gente, anche chi urla di voler vedere se tra quei corpi ci siano i famigliari. Le vittime sono ancora troppo coperte di fango per poter essere mostrate.

Mi siedo su un muretto poco distante, prendo il block-notes, faccio un respiro profondissimo e comincio a scrivere. Appena possibile devo telefonare al giornale il primo pezzo».

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