Il giudice Ancona: «Stava fu l'esempio della banalità del male»

di Sergio Damiani

In questi anni il giudice Carlo Ancona in Tribunale ha cambiato più volte funzioni e ufficio. Ad ogni trasloco si è portato dietro le foto dei figli, le immagini del suo Gran Sasso e di vecchie battute di caccia in Molise. Insieme a  questo bagaglio leggero di immagini personali, Ancona ha sempre portato con sé una grande foto aerea della valle di Stava dopo il crollo dei bacini di Prestavel (o meglio dei «rilevati», come precisa il magistrato). È il segno che quella sentenza, quella storia di morte e di giustizia, hanno segnato per sempre il magistrato che fu giudice istruttore del maxiprocesso.  Anzi, c’è un’intera generazione di giudici trentini - all’epoca tutti trentenni, dunque «ragazzini» per la magistratura - che si sono formati alla «scuola di Stava»: Marco La Ganga che, giovanissimo, presiedette il collegio del Tribunale. A latere aveva Dino Erlicher (allora appena 31enne), e Alberto Pallucchini (32 anni). Con loro c’era anche Marco Gallina, nel 1988 ancora uditore. E poi, sui banchi dell’accusa, anche lui ai primi passi, Aldo Giuliani (in seguito stimato giudice civilista e ora assistente in Corte costituzionale). Per tutti loro Stava fu una scuola di diritto e, forse, anche di vita.

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Giudice Ancona, perché Stava per lei è come un’immagine di famiglia?
Perché è il processo più significativo che ho fatto. Stava mi insegnò a ragionare di diritto, a cogliere e bilanciare gli elementi a favore o contro l’indagato. E poi in quel procedimento toccai con mano la banalità del male.

Cosa vuole dire?
Faccio un esempio concreto. Il disastro del Vajont fu per molti aspetti diverso da quello di Stava. Nel caso del Vajont la consapevolezza di quello che poteva accadere e che già stava accadendo era molto alta. Si sapeva che il  monte Toc stava franando, anche se si sperava che non accadesse. A Stava, invece, semplicemente non ci si pensava.

A Stava si navigava a vista...
Erano scelte quotidiane innocenti ed inconsapevoli: ogni giorno si aggiungevano solo pochi innocui chili di sabbia, nel loro accumularsi lento negli anni erano arrivate e determinare una tremenda minaccia per la vita della valle. Le soluzioni tecniche adottate un decennio prima del crollo evitarono che i rilevati crollassero allora. Prolungarono l’attività estrattiva e di accumulo per altri dieci anni aumentando così a dismisura le conseguenze del disastro.

Il processo stabilì che le responsabilità erano  sostanzialmente su tre livelli diversi.
C’erano responsabilità di natura amministrativa, ma non politica, in capo al Distretto  minerario della Provincia. All’epoca non c’era una  legislazione specifica sui rifiuti. Non c’erano soggetti o agenzie preposte alla tutela dell’ambiente. Era il Distretto minerario che avrebbe dovuto controllare e non lo fece. Poi naturalmente c’erano responsabilità da parte di chi negli anni ebbe in concessione la miniera. Infine c’erano i tecnici che, chiamati a valutare la situazione, non colsero gli evidenti segnali di pericolo o li colsero e li trascurarono.

Eppure c’era chi aveva paura di quei due bacini, che pure al profano apparivano come inamovibili colline verdi.
Nel 1975 il sindaco di Tesero, preoccupato, chiese alla Provincia se la stabilità dei bacini fosse garantita. La Provincia affidò la risposta alla stessa società mineraria. Il tecnico da loro incaricato (Antonio Ghirardini, ndr), poi condannato, inizialmente si meravigliò lui stesso del fatto che gli argini fossero ancora in piedi, nonostante l’altezza a la forte inclinazione.

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Perché allora non fermò tutto?
Dopo essersi ripreso dalla sorpresa l’ingegnere ordinò l’arretramento di alcuni metri dell’argine superiore in via di elevazione, migliorandone la stabilità. In questo modo permise di continuare per altri dieci anni ad utilizzare ed accrescere le discariche. Fino al crollo.

Cosa accadde il 19 luglio del 1985? Sostanzialmente parte del rilevato a monte crollò su quello sottostante come apparì chiaro in uno dei sopralluoghi che condussi in loco con i periti. Trovammo degli alberi mozzati all’altezza di un paio di metri. Era la prova che il bacino inferiore era schizzato verso l’alto per la caduta di parte di quello superiore. Dopodiché, anche dopo tanti approfondimenti, non sono mai riuscito a capire come una collina che pareva ferma si sia messa a correre a 25 metri al secondo.

La Cassazione alla fine confermò il primo giudizio del Tribunale di Trento. Qualcuno finì mai in galera?
All’inizio venne incarcerato qualcuno di quelli che non c’entravano nulla o che avevano responsabilità secondarie. Di certo degli imputati principali nessuno scontò anche solo parte della pena in carcere perché beneficiarono di un paio di indulti. Si sa come vanno queste cose nel nostro Paese...

Lei, per il ventennale di Stava, scrisse che «su scala planetaria le attuali scelte economiche, politiche, produttive, stanno addensando un pericolo  della stessa consistenza sul futuro dell’umanità e che tutti i correttivi proposti non siano altro che sistemi per ritardare la resa dei conti, ma anche per renderne più gravi gli effetti». Da allora ha cambiato idea?
Assolutamente no.

Allora Stava non ci ha insegnato proprio nulla...
Per carità, in Trentino il disastro accrebbe la sensibilità per i temi ambientali e favorì una legislazione molto più attenta ed efficace. In generale, però, Stava e i numerosi altri disastri analoghi dimostrano che l’uomo è incapace di limitarsi.

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Da quanto manca da Stava?
Sono almeno 10 anni. Tornarci da solo mi trasmette grande malinconia. L’ultima volta ci andai, in occasione del ventennale, per un’intervista con History Channel che si concluse proprio con un riferimento all’incapacità dell’uomo di limitarsi. Parlo ben poco inglese, ma il concetto era talmente semplice che riuscii a spiegarmi anche in quella lingua: too many people think business is more important than life.

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