Fabrizio Merz a Shanghai dalla crisi alla fase 2 Il racconto del top manager trentino in Cina «Forte attenzione, c’è ancora paura del virus»

di Zenone Sovilla

«Ancora oggi a Shanghai si convive con la paura che il virus possa ricomparire, dopo settanta giorni dalla riapertura dell'azienda e dal ritorno a una certa normalità».
Lo racconta Fabrizio Merz , originario di Cognola, dal 2016 managing director della filiale di Shanghai (una novantina di dipendenti) della bresciana Gefran Spa, multinazionale che si occupa di automazione e controllo dei processi industriali. «Sono in Cina dal 2005, prima nel sud a Xiamen e poi, dal 2011, a Shanghai», spiega Merz, che è sposato con la signora Fabia di Brescia: la coppia ha due bambini, Alessandro e Matilde di 9 e 11 anni. Dopo il liceo e i primi studi accademici nel Vermont (nordest degli Stati Uniti), il dirigente trentino è rientrato nella sua città per proseguire l'università: «Avevo vent'anni - ricorda - e nel 1997 sono stato fra i primi tre studenti a laurearsi nel corso di metodologie fisiche, ideato dal professor Davide Bassi alla facoltà di fisica».
Merz, come state vivendo questa fase due dell'epidemia?
«Si fa molta attenzione. Noto ancora la paura e il rispetto che mi avevano colpito durante la quarantena domestica: se siamo attenti, il virus non lo prendiamo. Per riaprire l'azienda, abbiamo dovuto presentare un piano specifico di sicurezza alle autorità locali, che ci hanno rilasciato un nulla osta dopo aver verificato l'idoneità e le garanzie/responsabilità sul rispetto costante delle procedure. Le persone di rientro da fuori provincia potevano tornare sul posto di lavoro solo dopo 14 giorni. Non era una quarantena vera e propria, la gente si poteva muovere, sempre usando le mascherine,; ma non lo si faceva, per rispetto del prossimo».
Com'è stato scoprire di essere un avaposto di una grande azienda?
«Ogni giorno da amici, colleghi e dal nostro quartier generale a Provaglio d'Iseo ricevevamo telefonate e si discuteva di come reagire e di quale supporto avevamo bisogno. Questo ci ha aiutati poi come gruppo, quando il virus, ormai diventato covid-19, è arrivato in Italia e presto in tutto il mondo. Abbiamo filiali produttive anche negli Usa, in Brasile, India e Svizzera: si è cercato insieme, in diverse fasi temporali, di aiutarci aspettando che tutto torni alla normalità. A Shanghai, abbiamo quindi potuto assistere i colleghi all'estero e fornire consigli su come organizzarsi e prevedere l'evoluzione nei prossimi mesi. Ora in Cina l'attenzione è massima contro il rischio di una nuova ondata epidemica, tutti sono attivi nella prevenzione».
Nel frattempo come procede la ripartenza?
«Le scuole hanno cominciato ad aprire, l'economia dà segni molto positivi, i ristoranti via via si riempiono e si riprende a viaggiare in treno e in aereo. Ma resta una situazione molto dinamica, le decisioni per tenerla sotto controllo vengono prese a livello locale, seguendo linee guida statali, secondo l'andamento dei dati epidemiologici nei vari territori. In ogni modo, questa settimana ci saranno cinque giorni di vacanza e alcune località turistiche vicino a Shanghai hanno già il tutto esaurito».
Facciamo un passo indietro: come ha vissuto l'arrivo dell'epidemia?
«Eravamo a gennaio. A ridosso delle vacanze per il capodanno cinese. Con milioni di persone in viaggio, la preoccupazione principale era rivolta ai trasporti, a eventuali stop di treni e aeroporti. Io ricordo bene il momento in cui ho compreso la gravità di ciò che stava accadendo. Nel mio ufficio, una volta al mese, pranziamo tutti assieme, un modo informale, ma molto efficace, per scambiare nuove idee. Ricordo che la mia responsabile del personale mi ha chiesto di mandare a casa un manager con il raffreddore, perché poteva avere questo nuovo virus.
Quell'evento ha scatenato la ricerca affannosa di informazioni. Informazioni che di ora in ora si moltiplicavano, si diffondevano e venivano presto smentite. Da lì a un paio di giorni sono cominciate le vacanze e colleghi, sparsi più o meno in tutta la Cina, si scambiavano notizie. È un'epidemia molto "mediatica" rispetto ad altre, come la Sars di 17 anni fa, il primo confronto che qui ci veniva in mente. Questo nei Paesi asiatici è stato un tratto utile, perché tutti hanno reagito precocemente, con il dovuto senso di urgenza, malgrado non si sapesse ancora molto del virus. In una settimana si è passati dalla serenità alla chiusura completa della città di Wuhan e della sua regione, l'Hubei. Tra una provincia e l'altra è stato vietato spostarsi ed è stato suggerito a tutto il resto della popolazione di rimanere in casa e uscire solo in caso di necessità (per fare la spesa), indossando la mascherina (anche in Cina scarseggiavano all'inizio, a noi la sede centrale ne ha spedite alcune centinaia dall'Italia). Come azienda, abbiamo subito istituito un team interno per la gestione della crisi. L'impegno era rivolto anche a tenere tempestivamente informati i nostri colleghi su come difendersi e verificare che le informazioni giudicate via via attendibili arrivassero a tutti. A tutti è stato dato l'obiettivo di non ammalarsi, di stare molto attenti e di adottare tutte le precauzioni necessarie. Entro quindici giorni alcune regioni hanno permesso il rientro nelle grandi città e dopo tre settimane di chiusura le aziende hanno cominciato a riaprire».

«Ancora oggi a Shanghai si convive con la paura che
il virus possa ricomparire, dopo settanta giorni dalla riapertura dell'azienda
e dal ritorno a una certa normalità».
Lo racconta Fabrizio Merz, originario
di Cognola, dal 2016 managing director della filiale di Shanghai (una novantina
di dipendenti) della bresciana Gefran Spa, multinazionale che si occupa
di automazione e controllo dei processi industriali. «Sono in Cina dal
2005, prima nel sud a Xiamen e poi, dal 2011, a Shanghai», spiega Merz,
che è sposato con la signora Fabia di Brescia: la coppia ha due bambini,
Alessandro e Matilde di 9 e 11 anni. Dopo il liceo e i primi studi accademici
nel Vermont (nordest degli Stati Uniti), il dirigente trentino è rientrato
nella sua città per proseguire l'università: «Avevo vent'anni - ricorda
- e nel 1997 sono stato fra i primi tre studenti a laurearsi nel corso
di metodologie fisiche, ideato dal professor Davide Bassi alla facoltà
di fisica».
Merz, come state vivendo questa fase due dell'epidemia?
«Si
fa molta attenzione. Noto ancora la paura e il rispetto che mi avevano
colpito durante la quarantena domestica: se siamo attenti, il virus non
lo prendiamo. Per riaprire l'azienda, abbiamo dovuto presentare un piano
specifico di sicurezza alle autorità locali, che ci hanno rilasciato un
nulla osta dopo aver verificato l'idoneità e le garanzie/responsabilità
sul rispetto costante delle procedure. Le persone di rientro da fuori provincia
potevano tornare sul posto di lavoro solo dopo 14 giorni. Non era una quarantena
vera e propria, la gente si poteva muovere, sempre usando le mascherine,;
ma non lo si faceva, per rispetto del prossimo».
Com'è stato scoprire
di essere un avaposto di una grande azienda?
«Ogni giorno da amici, colleghi
e dal nostro quartier generale a Provaglio d'Iseo ricevevamo telefonate
e si discuteva di come reagire e di quale supporto avevamo bisogno. Questo
ci ha aiutati poi come gruppo, quando il virus, ormai diventato covid-19,
è arrivato in Italia e presto in tutto il mondo. Abbiamo filiali produttive
anche negli Usa, in Brasile, India e Svizzera: si è cercato insieme, in
diverse fasi temporali, di aiutarci aspettando che tutto torni alla normalità.
A Shanghai, abbiamo quindi potuto assistere i colleghi all'estero e fornire
consigli su come organizzarsi e prevedere l'evoluzione nei prossimi mesi.
Ora in Cina l'attenzione è massima contro il rischio di una nuova ondata
epidemica, tutti sono attivi nella prevenzione».
Nel frattempo come procede
la ripartenza?
«Le scuole hanno cominciato ad aprire, l'economia dà segni
molto positivi, i ristoranti via via si riempiono e si riprende a viaggiare
in treno e in aereo. Ma resta una situazione molto dinamica, le decisioni
per tenerla sotto controllo vengono prese a livello locale, seguendo linee
guida statali, secondo l'andamento dei dati epidemiologici nei vari territori.
In ogni modo, questa settimana ci saranno cinque giorni di vacanza e alcune
località turistiche vicino a Shanghai hanno già il tutto esaurito».
Facciamo
un passo indietro: come ha vissuto l'arrivo dell'epidemia?
«Eravamo a
gennaio. A ridosso delle vacanze per il capodanno cinese. Con milioni di
persone in viaggio, la preoccupazione principale era rivolta ai trasporti,
a eventuali stop di treni e aeroporti. Io ricordo bene il momento in cui
ho compreso la gravità di ciò che stava accadendo. Nel mio ufficio, una
volta al mese, pranziamo tutti assieme, un modo informale, ma molto efficace,
per scambiare nuove idee. Ricordo che la mia responsabile del personale
mi ha chiesto di mandare a casa un manager con il raffreddore, perché poteva
avere questo nuovo virus.
Quell'evento ha scatenato la ricerca affannosa
di informazioni. Informazioni che di ora in ora si moltiplicavano, si diffondevano
e venivano presto smentite. Da lì a un paio di giorni sono cominciate le
vacanze e colleghi, sparsi più o meno in tutta la Cina, si scambiavano
notizie. È un'epidemia molto ?mediatica? rispetto ad altre, come la Sars
di 17 anni fa, il primo confronto che qui ci veniva in mente. Questo nei
Paesi asiatici è stato un tratto utile, perché tutti hanno reagito precocemente,
con il dovuto senso di urgenza, malgrado non si sapesse ancora molto del
virus. In una settimana si è passati dalla serenità alla chiusura completa
della città di Wuhan e della sua regione, l'Hubei. Tra una provincia e
l'altra è stato vietato spostarsi ed è stato suggerito a tutto il resto
della popolazione di rimanere in casa e uscire solo in caso di necessità
(per fare la spesa), indossando la mascherina (anche in Cina scarseggiavano
all'inizio, a noi la sede centrale ne ha spedite alcune centinaia dall'Italia).
Come azienda, abbiamo subito istituito un team interno per la gestione
della crisi. L'impegno era rivolto anche a tenere tempestivamente informati
i nostri colleghi su come difendersi e verificare che le informazioni giudicate
via via attendibili arrivassero a tutti. A tutti è stato dato l'obiettivo
di non ammalarsi, di stare molto attenti e di adottare tutte le precauzioni
necessarie. Entro quindici giorni alcune regioni hanno permesso il rientro
nelle grandi città e dopo tre settimane di chiusura le aziende hanno cominciato
a riaprire».                                                           

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