Persone / L’intervista

Carlo Claus, 95 anni di ricordi, dalle scalate sul Basso al Cerro Torre con Maestri

Accademico del Cai, Cardo d’oro, appassionato alpinista, è un vero archivio vivente della montagna eroica: «Fino ai 70 ho arrampicato, adesso solo passeggiate e bicicletta»

di Guido Smadelli

CLES. Carlo Claus, cosa l'ha spinta a darsi all'arrampicata? «Finita la guerra, dopo essere stato arruolato e aver indossato la divisa per 100 giorni nella polizia del Trentino, avevo optato per la bicicletta, un giorno sono andato con l'amico Porcelli, corridore, a fare un giro fino a Bolzano. Cento chilometri... tornato a casa ho deciso di chiedere a un altro amico, Elio Andreatta, se potevo arrampicare con lui e lui ha chiesto a Marino Stenico, noto scalatore. Un po' di palestra ai Bindesi e alla Vela, dove si andava in bicicletta, ed è seguita la prima arrampicata, sulla Paganella, la via normale fatta con Andreatta, una settimana dopo la direttissima con Stenico. Non ho più smesso».

Nato a inizio dicembre del 1926, Carlo Claus è un mito dell'alpinismo trentino. Secondo di nove fratelli, originario di Lavis, dal 1951 si è trasferito a Cles, dove ha messo su famiglia con Angelina (tre figli, Giuseppe, Andrea, Elisabetta) e fondato l'omonima azienda idraulica, di cui oggi sopravvive il negozio di Piazza Granda.

Alla vigilia dei 96 anni ancora guarda alle montagne, di cui conserva chilogrammi di foto-ricordo, accontentandosi ora di qualche breve passeggiata; le gambe non sono quelle di una volta, ma lo spirito e la memoria sì.

scalatore Carlo Claus Cles - Carlo Claus (a sx) con Elio Andreatta alle Cime di Lavaredo.

Nel frattempo si era iscritto alla Sat…

«Certo. Avevo molti amici nel gruppo di Pressano, mi sono iscritto con quello di Lavis. Nei primi anni scalate quasi locali, in Val Gardena, sulle cime di Lavaredo, nel '49 ho fatto la nord, nel '50 la ovest, nel '51 la grande. Onestamente non so dire quante vette ho scalato».

Tante da diventare accademico del Cai.

«Sì, nel 1958. Con altri riconoscimenti, il premio giovani della Sosat, il premio Alexander dell'Ordine del cardo nel '78, socio onorario del Cai nel 2012... Qualche anno dopo sono seguite le spedizioni all'estero. La prima nel '67, nell'Air, in Niger, nel '68 ancora Africa, nel deserto del Tenerè (parte sud del Sahara, ndr) una spedizione non ultimata perché in Ciad c'erano stati disordini, alla frontiera la Legione straniera ci ha bloccati e fornito il necessario per tornare indietro... nel '69 il primo viaggio in Himalaya, una cima di quasi ottomila metri, 105 giorni via da casa, sono tornato a inizio '70».

Con una chiamata importante, appena tornato.

«Già. Mi telefona Cesare Maestri, mi propone di accompagnarlo nella spedizione al Cerro Torre, in Sudamerica. Ero indeciso, non era in programma, ero appena rientrato... ma poi ho accettato. Avevo iniziato ad arrampicare con lui nel 1962, facendo la nord del Campanil Basso. Con Cesare mi trovavo bene, la sola cosa che non mi andava era mettermi in mostra in pubblico, e con lui succedeva. Mi piace la compagnia, ma non esibirmi. Comunque siamo andati, conquistato il Cerro Torre - c'è ancora il compressore da noi usato - lì sotto la cima, siamo tornati».

Fino a quando ha continuato a scalare?

«Fin dopo i 70 anni. L'ultima ascensione è stata sul Campanil Basso, con la cordata più lunga del mondo. Poi sono passato alle escursioni e tornato in sella alla bicicletta. La montagna non l'ho mai abbandonata. Ora non posso fare granché, le gambe mi reggono poco. Però posso guidare e camminare un po'».

Cosa le ha dato la montagna?

«Difficile dirlo... Silenzio, pace, soddisfazioni. Non saprei dire quale sia stato il più bel ricordo. Lo sono tutti. Mi ha dato anche qualche problema con il lavoro, ma più soddisfazioni, che altro. Mi ha dato tanti amici, molti li sento o li incontro ancora».

E qualche vacanza al mare?

«Amo il mare, amo navigare, ma ho sposato la montagna... In viaggio di nozze sono stato a Capri, con mia moglie. Prendevo un po' di sole, facevamo passeggiate, ma io scalavo anche qualche faraglione...»

Tra i suoi ricordi, articoli, lettere, fotografie. Carlo Claus ci mostra tutto: un articolo scritto da Italo Leveghi, che lo definisce «il gracilino» (Carlo è sempre stato magro), ricordando che dal suo zaino, quando andava in gita con i veterani dello sport, «uscivano vasetti di acciughe».

In un altro pezzo, non firmato, l'autore definisce Carlo «un uomo giusto e per questo vero. Che ha seguito la sua passione e ne ha fatto un canto lungo quasi un secolo. Un insegnamento prezioso per tutti noi».

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