Il presidente Cai, Torti «Bisogna ripensare lo sci e la montagna»

Per il Club Alpino Italiano, il futuro della montagna passa anche dal superamento della monocultura dello sci alpino, attraverso la differenziazione: valorizzando forme diverse di turismo, favorendo l'ospitalità diffusa, investendo in servizi che favoriscano la residenza in alto. Evitando di estendere i comprensori sciistici a zone ora intatte e gestendo le stazioni in modo sostenibile.

Con il documento intitolato «Cambiamenti climatici, neve, industria dello sci. Analisi del contesto, prospettive, proposte», il Cai prende posizione sui temi chiave dell'economia invernale di molte vallate delle Alpi dopo aver analizzato i dati relativi all'economia dello sci alpino e i benefici per le comunità locali, nel contesto di un clima che cambia e degli adeguamenti resi necessari dal mercato. «Stagnazione duratura del mercato sciistico, forte concorrenza internazionale, cambiamenti climatici in corso e conflitti con la protezione della biodiversità - si legge nelle conclusioni - impongono un ripensamento dell'economia legata allo sci da discesa e alle aree montane in generale».

Il Cai «ritiene che non vi siano le condizioni per ulteriori espansioni dei comprensori sciistici verso zone intatte e tantomeno all'interno delle aree protette a livello europeo o nazionale; sia invece necessario gestire nel modo più razionale e sostenibile le stazioni sciistiche che presentino ancora buone prospettive, al fine di attirare un pubblico che dispone di molte offerte concorrenziali nell'arco alpino europeo, attraverso la necessaria diversificazione e ammodernamento delle attività, ma rigorosamente all'interno degli attuali comprensori e urbanizzazioni». Al presidente generale del Cai, l'avvocato Vincenzo Torti , abbiamo posto qualche domanda su questa analisi, ma anche sulle iniziative della grande «famiglia alpinistica» italiana.
Presidente Torti, come è nato il documento?
«Già in occasione dell'approvazione del Bidecalogo , adottato dal Cai nel 2013 quale forma di autoregolamentazione e proposta generale, si era posta l'attenzione sulla inopportunità che si realizzassero ampliamenti e nuovi impianti sciistici, ma si erano lasciati spazi prudenziali per valutare anche casi molto particolari. Ma era tempo di dar corso ad una verifica più ampia e approfondita. L'analisi effettuata ha mostrato un quadro con più di trecento impianti di risalita abbandonati in Italia e dinanzi alle proposte di ampliamento di alcune stazioni sciistiche, come la Via Lattea, l'Alpe Devero, le Cime Bianche, il Comelico, o a progetti per zone dove la neve ormai non arriva sempre, ci siamo posti, al di là degli aspetti pur prioritari di tutela ambientale, anche il quesito sulla razionalità e remuneratività di ulteriori investimenti, spesso a carico degli enti territoriali. Da dieci anni il numero di sciatori non aumenta e lo sci è considerato un prodotto maturo e siamo convinti che il futuro della montagna sia nella destagionalizzazione. Le racchette da neve, ad esempio, stanno prendendo piede e in questi mesi stiamo promuovendo itinerari che evitino gli affollamenti».
In questo momento il settore dello sci è in sofferenza a causa della pandemia.
«Gli impianti esistenti rappresentano un turismo importante e auspichiamo che le stazioni vengano adeguatamente aiutate, ma le risorse che si vorrebbero mettere in nuovi impianti potrebbero essere impiegate per contribuire alla diversificazione dell'offerta turistica in altre attività, distribuite in tutto l'arco dell'anno».
Tuttavia, gli ampliamenti talvolta vengono richiesti affinché le società possano rimanere sul mercato internazionale: accade in Italia come negli altri Paesi alpini.
«L'esistente va bene, ha portato economia, anche se non dappertutto. La domanda da porsi doverosamente è quale senso abbia pensare di ampliare o, addirittura, realizzare nuovi impianti, a fronte di un numero di fruitori che non cresce da molto tempo e che, semmai, a causa della pandemia e della conseguente crisi economica, subirà un'ulteriore contrazione. Non è un caso che anche i Club alpini di Austria, Germania e Francia abbiano assunto da tempo una posizione analoga di contrarietà motivata».
Il Cai come ha sentito gli effetti della pandemia?
«Onestamente devo dire che il Cai grazie all'affezione e al senso di appartenenza dei propri soci, gode di buona salute: avevamo toccato nel 2019, in situazione di totale normalità, il picco di 327mila soci e, al 31 ottobre scorso, abbiamo chiuso, in piena pandemia, a 306.250 soci. Affrontiamo il 2021 con doverosa prudenza, ma anche con altrettanta fiducia: iscriversi al Cai significa avere a cuore la montanità, che è una dimensione cui appartengono anche le popolazioni, e non solo la montagna fisica. Quest'anno abbiamo donato 53 autovetture ad Anpas (l'Associazione nazionale pubbliche assistenze) per assicurare l'assistenza domiciliare nelle valli più discoste d'Italia, e a tutte le sezioni Cai proprietarie dei ben 327 rifugi alpini, abbiamo regalato il kit completo per  la sanificazione per favorire le riaperture. Una novità importante è rappresentata dai Villaggi degli alpinisti ideati in Austria e che ora, adottando i medesimi criteri di selezione qualitativa, sono approdati in Italia. Così, dopo Forno di Zoldo, sono stati ammessi anche  Balme, in Piemonte, Triora in Liguria, mentre Paularo, in Friuli Venezia Giulia è il prossimo candidato. Si tratta di un altro modo di interpretare la montagna che credo influirà non poco, e in senso positivo, sul modo di guardare alla montagna tutta. E poi c'è il Sentiero Italia Cai, che unisce tutte le nostre regioni e accanto al quale nasceranno nuove economie. Lungo il percorso vi sono già  famiglie che hanno riattato i locali dei nonni per ospitare i camminatori, perché dove c'è un itinerario a piedi i frequentatori amanti della natura e della scoperta delle culture del territorio, arrivano».
A che punto è il Sentiero Italia Cai?
«Molti punti di accoglienza sono già accreditati e da maggio usciranno le prime guide a stampa. Con il Ministero dell'Ambiente abbiamo di recente siglato un protocollo per realizzare il Sentiero Italia dei Parchi, che unisca tutti i Parchi nazionali, sedici dei quali già intercettati dal SICai , cui abbiamo deciso di affiancare il tratto delle Alpi Apuane, come forma di attenzione e promozione di una montagna così gravemente minacciata. Si tratta di un grande impegno al quale il volontariato del Cai ha dato una risposta generosa e competente .E l'interesse per questi straordinari itinerari ha già varcato i nostri confini, sol che si consideri che sono arrivate richieste di notizie dagli Stati Uniti e persino dalla Nuova Zelanda».

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