Cosa ricorderò del dramma del Covid

E’ davvero importante sapere a cosa rinunceremo a Natale? La bella lettera di una lettrice, e la risposta del nostro Direttore.

Cosa ricorderò del dramma del Covid

Caro direttore, senza infierire in critica diretta alla situazione dell’attuale emergenza, continua a mancare il punto di vista lungimirante nel vivere di ciascuno. Si punta e si spera sempre di centrare i propri obbiettivi al primo colpo e più in fretta possibile. L’idea che il frutto dei nostri sforzi si potrà cogliere solo dopo lunga e paziente attesa è un’eredità del vivere che ogni nuova generazione si sente propinare dalla precedente e sembra essere sempre più aliena dalla realtà. Facciamo qualcosa adesso per l’adesso, o al massimo per ottenere qualche beneficio tra un mese, un Natale un po’ sereno per tutti... ma chi ha già passato feste e ricorrenze varie inchiodato a un letto, a un turno di lavoro assurdo (poco importa ai più della commessa dell’ipermercatone, che la sera della vigilia ti batte stanca tutti i codici delle tue cianfrusaglie, datteri compresi, meno ancora importa del medico, dell’oss, del poliziotto) o ad assistere qualcuno in difficoltà sa che i giorni di festa sono in effetti solo giorni, e come tali andrebbero trattati. Non ricorderò il Covid perché a Pasqua 2020 non ho mangiato coi miei amici e le loro famiglie, né perché questa estate le vacanze coi nonni si sono ridotte a saluti dai balconi. Lo ricorderò perché si è portato via nonna Pilar, il cugino Giancarlo e il buon Luciano, lasciando strazio nei loro cari. Perché non abbraccio mio fratello da oltre un anno. Perché ha spaccato la famiglia della mia amica Johanna, fermando oltre confine il figlio e costringendo i nonni soli al paesello per mesi. Perché ha tenuto mio zio lontano dal figlio disabile, protetto rigorosamente in struttura, avvolto da una bolla. Della prima volta che ho rivisto gli occhi del mio migliore amico dopo mille telefonate, sì mi ricorderò. E anche dei miei figli che mandano baci ai nonni dal cortile. Ma di date o feste neanche l’ombra. E Lei cosa conserverà del tempo del virus?

Federica Martinelli


 

Il vivere di ognuno è il vivere del mondo

Mi spiazza, cara Federica: perché forse per la prima volta mi trovo a rispondere a una domanda rivolta alla mia anima e al mio cuore e non (almeno non solo) al direttore. Le dico subito che ci sono ovviamente due piani di “conservazione”. Quello personale, fatto di sensazioni, di dolori, di preoccupazioni, di persone care che non posso andare a trovare in ospedale, di persone che non ho potuto nemmeno salutare a un funerale, di una moglie molto preoccupata per mille comprensibili ragioni (anche per i miei spostamenti e per i miei impegni, seppur molto diversi da quelli di un tempo), di una figlia che frequenta un’università virtuale (mi sembra un ossimoro, una cosa senza senso, il rovesciamento del concetto di insegnamento), di una figlia a Londra, che non abbiamo potuto abbracciare per sette mesi che ci sono sembrati infiniti e che ora speriamo di riavere a casa a Natale. E così le dico anche che il Natale non è una data normale, non solo e non certo per aspetti che hanno a che fare con la fede - da riscoprire, a volte da ritrovare, riempiendo di significato questi momenti - o con la voglia (sempre legittima) di festeggiare, ma anche e soprattutto perché è l’occasione per ritrovarsi, per abbracciarsi, per dare valore a gesti, contatti, baci - sono questi veri regali - di cui solo ora riscopriamo il valore profondo.
Penso che molti di noi abbiano conficcate nella memoria emozioni simili alle sue, che sono singole e intime, ma anche collettive e universali. Il riferimento agli occhi del suo miglior amico definisce bene i tanti occhi che ci mancano. Professionalmente, sono invece in un frullatore. Ma conserverò ogni volto e ogni sguardo delle persone - che non ci sono più - di cui abbiamo parlato sul giornale. I volti di chi non c’è più e quelli di chi è rimasto: senza parole, senza un contatto fisico, senza il profumo dell’ultimo tratto di strada. E conservo le storie di chi ha sempre lavorato. Ora, ma anche lo scorso anno e due anni fa. Perché i tanti lavoratori di cui parla lei sono davvero al fronte ogni giorno (inclusi i tanti miei colleghi che non smetterò mai di ringraziare per il grande lavoro fatto in questi mesi e anche per il bel libro che ha fermato molte delle pagine che abbiamo scritto durante la pandemia). Lavoratori impegnati col Covid e senza Covid. Perché ogni giorno - per tantissime persone spesso invisibili - è una battaglia, una trincea, una fatica.
Ho “parlato” anche troppo. Aggiungo solo che si può vivere senza datteri, anche se io penso sempre, più che al singolo alimento, ai tanti lavoratori che - in condizioni spesso precarie e a dir poco complicate - permettono ad ogni prodotto di arrivare su un bancone (per questo invito tutti a fare acquisti nel proprio paese, nella propria piazza, nella propria comunità, per tenere vivo il “villaggio”).
Non si può invece vivere senza abbracci, senza la verità dei gesti concreti, senza speranza, senza un occhio che sia in grado di spaziare dall’adesso (è vero, i politici sono troppo concentrati sul “qui e ora”) al futuro. Che è fatto del vivere di ciascuno, lei ha ragione, e un po’ anche del vivere del mondo. Il Covid ci ha dilaniato, ma ci ha anche costretti a riscoprire il valore di alcune cose che diamo per scontate; ci ha fatto concentrare sull’essere più che sull’avere. Ci ha portato via tantissimo, ma ci ha messo davanti allo specchio della vita e della realtà. Non so se ne usciremo migliori: temo che torneremo presto ciò che eravamo.
Penso però che ognuno di noi sia cambiato, vivendo un’angoscia (da non confondersi con la paura, che è sana, come ci ha ricordato il filosofo Galimberti) che non ha comunque precedenti. E in tutto questo il vivere di ciascuno, secondo me, c’è. E non è fatto certo solo di egoismo, per fortuna. Infine, so che ne usciremo.

lettere@ladige.it

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