Lavoro, tecnologie e crisi: preoccupati e “isolati”

La lettera al giornale

Lavoro, tecnologie e crisi: preoccupati e “isolati”

Caro direttore, spero che si ricordi di me. Qualche volta ci siamo incrociati nel ristorante dove lavoro. La mia storia è la storia di molti miei colleghi, di molti lavoratori, di molte persone che il Covd-19 ha di fatto abbattuto: nel portafoglio, non nel corpo. Sono a casa senza stipendio e senza certezze. La cassa integrazione non arriva e forse solo dalla fine della settimana prossima - se il presidente davvero ci fa ripartire - ci rimetteremo al lavoro. In questi tre mesi non ho però potuto pagare l’affitto. Il mio stipendio non mi permette certo di accumulare risparmi e certo non mi sarei comunque aspettato di trovarmi all’improvviso in mezzo a quello che ci sta capitando.

Spero nella comprensione di chi doveva riscuoterlo, il mio affitto, ma capisco che è difficile per tutti e non so se riuscirò mai a restituire quei soldi. A questo aggiunga che tutti danno per scontato che ognuno di noi sia ipertecnologico. Non c’è più un ufficio per così dire tradizionale al quale uno possa rivolgersi per chiedere aiuto, uno sportello dove poter chiedere chiarimenti. Io non so nemmeno cosa siano un computer o un tablet e il mio telefono non è di quelli di ultima generazione: se anche fosse moderno, non saprei certamente come e con chi connettermi, come fare una pratica al telefono, come e a chi chiedere una mano.

C’è un pezzo di popolazione - io potrei parlarle a lungo di altri mie colleghi e di mia zia - che non sa nemmeno cosa voglia dire smart working. Ci sono tante persone che sono tagliate fuori da tutto, che non sanno come arrivare alla fine del mese, che si chiedono se il mondo tornerà mai quello di prima. Il presidente del consiglio dice che nessuno perderà il lavoro, che nessuno resterà a casa. Voglio credergli, ma io - come migliaia e migliaia di lavoratori qi e nel resto del Paese e del mondo - sono a casa da settimane e settimane e, come le ho detto, l’affitto di questa casa non so nemmeno come pagarlo.

Ci serve aiuto. Ci servono persone in carne ed ossa in grado di ascoltare chi non ce la fa, chi non sa cosa fare, dove andare, a chi rivolgersi. Lo so: in un certo senso è un problema mio, che avrei dovuto risolvere, ma alla mia età è un problema anche trasformarsi in esperti di tecnologia, di pratiche, di contributi, di aiuti. Io so solo che non ce la faccio. I miei capelli si sono fatti di colpo tutti bianchi, come il mio sguardo, in un certo senso. Mi aiuti, scriva questa cosa sul giornale bella grande. Mi permetta, per ovvie ragioni di dignità, di non pubblicare il mio nome. Tanto lei mi conosce. Ma ci aiuti a sentirci meno soli, meno abbandonati, meno tagliati fuori.

Il cameriere anonimo


 

L’atroce solitudine che ci attanaglia

Ho dato rilievo a questa storia che racchiude le tante storie simili di chi, per diverse ragioni, non ha voce per farsi sentire. Ieri, con la mascherina sul volto, ho attraversato la città a piedi. Più di una persona mi ha riconosciuto e mi ha parlato di cose simili. Non mi ero mai sentito così. Ho cercato di ascoltare ogni persona, di trovare una parola per ognuno. Mi sembrava, in un certo senso, di colmare un grande vuoto. Lasciato dalla politica, che non poteva e non può fare molto più di quanto sta facendo. Lasciato da ognuno di noi: perché non ci vediamo più, non ci incontriamo, non ci abbracciamo, non ci accarezziamo nemmeno con uno sguardo. Il Covid-19 ha generato una solitudine atroce. Molti non hanno nessuno con cui stare, non hanno nessuno accanto, non possono andare a trovare le persone care e passano giornate ad accartocciarsi nelle proprie ansie, nelle proprie preoccupazioni. Ora finalmente possiamo uscire. Ma abbiamo bisogno di lavorare, di prendere uno stipendio, di poter pagare una rata, un affitto.

Abbiamo bisogno di ritrovare le donne e gli uomini che eravamo prima di marzo. Per paradosso, la tecnologia di cui anche lei mi parla in questa sua lettera, ha dimostrato quante cose si possano fare in giornate come queste, ma anche quante cose un telefonino o un computer non potranno mai sostituire o fare. Abbiamo troppi social, ma ci siamo accorti che è la socialità a mancarci. E la società che fra qualche tempo riprenderà il cammino non sarà mai più la stessa. C’è un nuovo alfabeto - degli affetti, delle parole, degli incontri - che dobbiamo ricostruire. Servono nuove chiavi per aprire la porta di quest’incerto futuro.

lettere@ladige.it

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