Sonoma a Oriente Occidente: il ritorno alle origini

di Daniele Benfanti

Echi onirici e tratti surreali, intrecci di corpi e suoni, ispirati a Luis Buñuel, il grande regista surrealista, scuotono lo spettacolo Sonoma, ideato e diretto dal valenciano Marcos Morau. Il debutto è avvenuto ieri a Oriente Occidente alle 20.30, al Teatro Zandonai di Rovereto (replica oggi, stessa ora). Protagonista, la compagnia spagnola La Veronal.

Morau, che momento è per la danza internazionale? Ci sono spazi di «resistenza» come Oriente Occidente o questo festival è un’eccezione?

«È un periodo molto difficile. Il mondo della danza, già di per sé fragile, ne risente molto: spettacoli che vengono annullati o rimandati, il pubblico che non può vedere il tuo lavoro. Per fortuna ci sono festival che continuano a fare l’impossibile per far andare in scena le compagnie, come il Grec Festival, Tanz im August, Oriente Occidente stesso. A queste realtà siamo eternamente grati».

Le prove e gli spettacoli, le tournée come sono state condizionate quest’anno, con quali conseguenze anche economiche per gli artisti?

«Abbiamo perso praticamente tutte le entrate per sei mesi, spettacoli cancellati o posticipati, ballerini senza lavoro. L’unica cosa che ci consola è che la danza è un settore da sempre molto precario. Siamo abituati a lavorare nella precarietà e questo grande problema ci rende anche più forti quando si tratta di “resuscitare” e tornare alla vita con più desiderio».

Cosa ha ispirato Sonoma, il vostro spettacolo? Perché un tributo a Buñuel?

«Sonoma è il ritorno alle origini per capire chi siamo. Ritorno alla terra, all’origine, alle radici, al vento, al fuoco. Dopo Pasionaria, dove abbiamo invitato lo spettatore a immaginare un futuro vuoto e piatto, ho voluto viaggiare in un’altra direzione e tornare all’essenza dell’essere umano. Buñuel, come me adesso, è sempre stato interessato alla tradizione, ai costumi, alla terra. La Spagna è un paese, come l’Italia, con forti tradizioni radicate nell’arte ma Buñuel, come noi, è completato da uno sguardo che progredisce, moderno, viaggiante. Buñuel è sempre stato un visionario, uno capace di assetarsi di modernità e di tradizione allo stesso tempo. Crediamo che rivisitare l’origine dalla nostra visione perversa del presente ci faccia trovare nuovi significati e nuovi modi per capire chi siamo e dove stiamo andando».

Cosa ha voglia di gridare la danza contemporanea nell’anno del Covid?

«È più necessario che mai far sentire il nostro grido. L’arte deve agitare lo spettatore e aggrovigliare le budella. Il Covid è un mostro a tutti i livelli e l’arte ha sempre saputo approfittare delle crisi per porre domande e risposte che ci fanno trovare nuove speranze e nuovi modi di guardare e di essere nel mondo».

Le mascherine, il distanziamento fisico, la paura di toccarsi e stare vicini, cosa lasceranno in eredità alle nostre società? Potrebbero incidere anche sulle tendenze della danza?

«Spero niente o molto poco. La danza è contatto, è un corpo in azione al servizio delle idee, delle paure e dei desideri. Le mascherine e la distanza sono ostacoli allo sviluppo di un linguaggio in espansione ma allo stesso tempo la danza è evoluzione e cambiamento e saprà adattarsi a tutto ciò che viene».

Il rapporto con il nostro corpo che cosa può «imparare» da uno spettacolo di danza? Potremo mai pensare con il corpo o è un privilegio dei danzatori, dei coreografi?

«Penso che il movimento sia un modo di presentare le idee sul palco e non solo qualcosa di cui i ballerini possano godere. Lo spettatore impara vedendo un corpo in movimento e si emoziona per ciò che il corpo trasmette. Inoltre, il corpo abita uno spazio, una musica e un tempo che rende l’esperienza unica e finita e questo gli conferisce un valore alla portata di tutti. I danzatori, però, a volte sono troppo ossessionati da ciò che il corpo può fare come strumento di lavoro».

Perché per lei sono così importanti i movimenti delle braccia e delle mani?

«È vero, non posso negarlo: sì, mi interessano molto le mani e le braccia. Le mani, le dita, i disegni impossibili, morbidi e mostruosi che possiamo sviluppare. Arriviamo al mondo muovendo le mani, toccando... Io inizio sempre i miei laboratori di creazione pensando alle mani, alle dita, ai gomiti e alle spalle. Lì abbiamo tutto il necessario per raccontare qualcosa, se capiamo le braccia capiamo il corpo. Possiamo muovere le braccia come se bruciassero, come se fossero dentro l’acqua o mosse dal vento, fragili e dure come rami secchi, aggressive come fruste. È un universo che mi appassiona, con influenze del flamenco, della ginnastica e del balletto».

Da dove “tira fuori” i movimenti di danza un coreografo che dice di non «avere i movimenti nel proprio corpo»?

«Ma nel mio corpo c’è la grammatica, l’idea, i fondamenti e la comprensione di come un corpo deve pensare per essere sul palco e aperto all’improvvisazione e alla creazione simultanea. E poi mi affido molto ai miei danzatori: mi conoscono, conoscono i miei gusti e le mie ossessioni».

Perché l’uomo contemporaneo non è libero? Di cosa siamo prigionieri?

«Purtroppo la nostra esperienza fisica nel mondo è limitata. La nostra immaginazione invece è libera e infinita. Noi sogniamo, creiamo e generiamo luoghi ed esperienze che non accadono fisicamente ma che crescono nel nostro cervello e non possiamo trascurarli. Il mondo ci rende schiavi dei fatti e degli atti, ma ci offre anche la possibilità, per fortuna, di immaginarli».

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