«L'eco di uno sparo», stasera a Rovereto reading del'ex Cccp Zamboni

di Fabio De Santi

«Questa è la storia di mio nonno Ulisse e dei suoi sparatori che si spararono tra loro. Il racconto di ciò che ha innescato quei colpi in canna, e di ciò che è stato dopo. L'eco di uno sparo non si acquieta mai». Racconta questo il nuovo libro di Massimo Zamboni «L'eco di uno sparo», appena uscito per Einaudi , al centro del reading concerto di questa sera alle 21 allo Smart Lab di Rovereto nel quale il musicista emiliano sarà accompagnato, fra note e letture del libro, da Emanuele Reverberi (violino, sax) e Cristiano Roversi (stick bass, basso e synths).

Un evento inserito nel cartellone di «Breviario Partigiano. Immagini e suoni per il settantesimo anniversario della Resistenza» organizzato dall'Anpi Rovereto-Vallagarina, insieme al Nuovo Cineforum Rovereto.

Con Zamboni, chitarrista prima dei Cccp e poi dei Csi, siamo entrati nel cuore della sua vicenda personale.
Cosa ti ha spinto alla scrittura di queste pagine?
«Volevo sapere, volevo saperne di più. Sostanzialmente io, come tutti o molti di noi, ho una percezione della mia famiglia molto solida, molto consolidata, ma artificiosa perché costruita attraverso degli schemi che non sono realistici. Non sapevo nulla dell'uccisione di mio nonno. Sapevo solo che era stato ucciso durante la guerra perché era fascista, ed era stato ucciso da due partigiani durante un agguato. Questa storia era stata censurata, in famiglia non se ne parlava mai e non era possibile saperne di più».
Anche perché, immagino dopo la guerra, fosse necessario lasciarsi alle spalle certi ricordi.
«Sì, io penso che fosse sicuramente necessario, per ripartire e ricominciare a vivere. Però ognuno di noi ha un percorso e nel mio c'è stata la voglia e la curiosità, il bisogno di sapere come mai porto questo nome, Ulisse, che è il mio secondo nome, come mai di quella storia non mi è mai stato detto nulla praticamente e come sia possibile vivere senza sapere nulla dei propri avi, antenati, predecessori».
In questa tua ricerca «storica» qual è la cosa più importante che hai scoperto?
«Ce ne sono due. Una è contenuta nella dedica "Agli sconosciuti", che rimanda all'idea di dover accettare anche l'identità, come singoli, degli sconosciuti tenendo conto che anche noi non ci conosciamo, siamo "sconosciuti" a noi stessi, se non conosciamo la nostra storia, le nostre radici. La seconda fa riferimento al titolo "L'eco di uno sparo", perché quando il colpo in canna viene sparato, esploso, non si sa mai quando finirà la sua eco e quanti corpi dovrà attraversare durante gli anni e i secoli».
Come esce allora tuo nonno Ulisse da queste pagine?
«Io di persona ovviamente non l'ho mai incontrato quindi per me era un estraneo, di cui possedevo un paio di fotografie e il nome, che ho conosciuto attraverso le mie ricerche. I primi documenti che ho trovato su di lui erano davvero molto pesanti da affrontare, perché al di là dell'immagine di brava e buona persona che tutti quanti si sono preoccupati di trasmettermi, con gli anni lui si era coperto di pesanti responsabilità nel contesto locale, avendo partecipato attivamente alla nascita del fascismo e alla sue persecuzioni, pur non essendo un dirigente importante del partito.
La sua morte per me riscatta le sue colpe come persona fisica, ma non riscatta l'errore storico di cui lui non si è avveduto. Aveva aderito a quella causa per pura fede, senza averne tornaconto, pagando appunto quella scelta con la vita. E questo lo dico con estrema serenità, dopo tutto quello che ho letto e saputo su di lui appunto».
E poi c'è il gappista Soragni, nome di battaglia Muso?
«Anche lui sostanzialmente è rimasto imprigionato, imbrigliato nella storia come tutti quanti. Ed è quasi paradossale per lui essere stato ucciso a quindici anni dalla fine della guerra, allo stesso modo in cui lui uccideva i suoi avversari fascisti: in un agguato e con un colpo sparato ad un metro di distanza, senza possibilità di stampo. Questo era il modo di combattere dei partigiani del Gap, una maniera molto dura, decisa e anche molto funzionale. Ora fra l'altro riposa nello stesso cimitero in cui è sepolto mio nonno, a pochi metri di distanza. Io ho cercato di non giudicare in nessun modo né lui né il nonno, di mantenere uno sguardo che fosse capace di abbracciare entrambe le vite di queste persone».
La divisione del nostro Paese che nasce in quegli anni, l'eco di quello sparo che ci portiamo dietro anche in questo millennio, si potrà mai superare?
«L'eco di quegli spari è ancora viva perché l'Italia è un Paese che non è riuscito a riconciliarsi e nelle rimozioni di sono contenuti gran parte dei nostri problemi di oggi. Credo che queste divisioni resteranno anche se passeranno le generazioni e i nipoti sempre più si scorderanno dei fatti di un tempo. Il malvivere che è risultato da queste divisioni ha portato infatti ad uno Stato che ancor oggi ha una natura molto dispotica e lontana dai cittadini. Questo rimarrà e credo che lo sconteremo per lunghissimo tempo».

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