Hancock a Jazzmi: a 79 anni più fresco di tanti nipotini trapper

Se gli alieni arrivassero domani sulla Terra e ci chiedessero di consegnargli un elenco dei musicisti che hanno lasciato un’impronta profonda come Armstrong sulla Luna, nell’elenco ci sarebbe sicuramente il nome di Herbie Hancock.

Lasciamo perdere «Cantaloupe Island», fingiamo che non esista il periodo degli «Headhunters», dovremmo tenerlo in conto già solo per «I thought it was you», il brano più incisivo di «Sunlinght», che anticipava di parecchi decenni la musica dei Daft Punk. Era il 1978, anno di sperimentazioni, il vocoder era l’autotune dell’epoca (volendo nobilitare quest’ultimo).

Sulla copertina di quel disco Hancock sorrideva marpione con capelli cotonati, catena d’oro, baffi e camicia dal collo ampio. Ieri, primo novembre 2019, 41 anni dopo quella foto, Hancock aveva lo stesso ghigno divertito sul palco del Conservatorio di Milano per l’evento del JazzMi, il festival ideato e promosso da Ponderosa Music&Art e Triennale Milano grazie all’assessorato alla cultura del Comune.

Tra i 190 eventi (di cui 80 a ingresso gratuito), quello del musicista di Chicago era sicuramente tra i più attesi. In sala non c’è una sola poltrona libera. È difficile restare seduti su alcuni tappeti ritmici e, infatti, a un certo punto la cornice pettinata del Conservatorio sta stretta a tutti. Il vero concerto arriva col bis, quando gli argini dei posti numerati cedono sotto il peso dell’amore dei fan e anche chi era in piccionaia si trova per magia sotto al palco, a pochi centimetri da Hancock che si muove portando a tracolla una keytar, la tastiera elettronica a forma di chitarra che tanto spazio ha trovato negli anni Ottanta.

Per un’ora e mezzo Hancock resta seduto nel suo cortile di sintetizzatori e pianoforte, lasciando il centro della scena al chitarrista Lionel Loueke («l’uomo capace di suonare contemporaneamente due tempi diversi»), al flauto traverso della giovane Elena Pinderhughes («lei sa davvero cosa fare con lo strumento»), al basso di James Genus («nessuno sa suonare come quest’uomo qui»), e alla batteria di Justin Tyson («ogni sera inventa qualcosa di nuovo, l’ho preso in prestito al mio amico Robert Glasper»). Durante la presentazione dei suoi compagni di viaggio Hancock ha un atteggiamento paterno ma riconoscente, appena riprendono a suonare diventa anch’egli spettatore dei loro assoli. Lui che ha suonato in 13 dischi di Miles Davis (per citare solo una delle mille collaborazioni), segue i passaggi degli altri con lo spirito dello stagista che vuole apprendere i trucchi del mestiere. Ed è assurdo se pensiamo che due musicisti sul palco e una buona fetta del pubblico non era ancora nata quando uscì «Sunlinght».

Solo sul finale riprende la posizione centrale da band leader per l’ultimo brano «Chameleon», trasformato in un gioco di domande e risposte in note.

A 79 anni Herbie Hancock, l’uomo che dovremmo presentare agli alieni, è più fresco di molti nipotini trapper con l’autotune.

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