Melnyk: suono la musica dell'Universo

di Fabio De Santi

Il suo nuovo linguaggio pianistico, che ancora oggi rimane soltanto suo e definito con la sigla di «continuous music», lo ha trasformato in un vero e proprio punto di riferimento per molti.

Stiamo parlando di Lubomyr Melnyk, settantenne pianista ucraino dotato di una velocità di esecuzione da Guinness dei Primati: in media 13 note al secondo, con picchi di 19, che aprirà domani, giovedì 25 ottobre al Teatro di Sanbàpolis, alle 21, la rassegna «Transiti - Musiche in movimento».
In questa intervista siamo entrati nell’universo sonoro, davvero particolare, di Lubomyr Melnyk.

Lubomyr Melnyk, in quale modo definirebbe le sue performance per chi non conoscesse ancora la sua musica?

«La descriverei come un tempo che si ferma, la vita che si ferma. Solo la tua anima che canta in uno spazio ampio senza dimensione e le orecchie ascoltano la tua canzone e la tua anima sorride perché sta ascoltando qualcosa di magico da un luogo indefinito dove non si è mai stati. Tu sei il primo viaggiatore ad esplorare questi spazi e questa nuova sonorità. Devi ascoltare per sentire la voce della Natura che canta e per sentire la potenza dell’Universo che ti parla. Lascia che la tua mente si arricchisca su questo bel giardino di note che danzano davanti ai tuoi occhi ammantante di splendidi colori».

E quali forme avrà allora il live che terrà a Trento?

«Suono sempre un mix di cose nuove e vecchie. Mi piacerebbe presentare me e il mio piano così che possiate sentire come il pianoforte canta».

Lei è diventato un punto di riferimento per linguaggio pianistico del tutto personale, la «continuous music»: quali sono le basi di questa creazione?

«Ho compiuto un lungo viaggio per trovare questa musica. È venuta dal mio profondo interesse per la filosfia, per Platone e i moderni filosofi come Heidegger. La mia musica nasce dal mio amore per la bellezza, dal sentire e vedere cose belle, non cose orrende.
Il mio stile nasce dalla mia formazione classica e dall’essere stato un hippie nel 1971, la trascendenza e l’amore per Dio. Questa è la tavola degli ingredienti per fare questa “zuppa di piano” chiamata “continuous music”».

Da dove è nata la sua passione per il pianoforte?

«Ho cominciato a suonare il piano molto presto, a casa. Ho seguito delle vere e proprie lezioni solo dagli 8 anni in poi. Ho sempre amato il pianoforte, mi piace tutto quello che riguarda questo mondo, non solo lo strumento ma il legno, il metallo, il suo colore. Posso vivere senza cibo, ma non senza piano».

Quali sono i suoi maestri, i suoi punti di riferimento?

«Il primo è stato Beethoven, naturalmente, la sua vita e le sue creazioni. Mi hanno ispirato anche musicisti moderni come Jimi Hendrix e John MacLaughlin per la straordinaria brillantezza del loro suono. Loro erano molto diversi e sotto molto aspetti simili. Altri spunti fondamentali per me sono arrivati dal Tai Chi e il Kung Fu, le arti marziali mostrano la via a tutti i musicisti che aspirano ad essere maestri».

Che consigli darebbe ad un giovane musicista che si avvicina al pianoforte per trovare una propria identità, una propria strada originale come ha fatto lei?

«Per padroneggiare il piano devi prima avere il controllo di te stesso e delle tue dita. Suonare il piano è come essere un ballerino classico ma usando le dita e per questo devi passare l’80% della tua vita a rendere i muscoli sempre più forti prima che spicchino il salto verso il cielo».

Qual è l’aspetto che la emoziona di più durante le sue performance live?

«Sentire che il pubblico si sta godendo la musica che suono, la sensazione che provo quando tocco il piano e sento che la gente ascolta. Ogni concerto è un viaggio completamente nuovo per me e per il pubblico. Ogni pezzo è creato in quel momento per essere condiviso con gli spettatori».

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