Ezio Mauro: la pandemia dimostra che il welfare non va mercificato

La pandemia ci ha insegnato soprattutto una cosa: che non possiamo continuare a mettere il welfare sul mercato». Ezio Mauro , giornalista, classe 1948, già inviato e direttore de «La Stampa» (per 4 anni), erede del fondatore Eugenio Scalfari a «La Repubblica», che ha diretto per vent'anni, fino al 2016, è autore di diversi libri.
Mauro è apepna stato in Trentino, a parlare del suo ultimo volume "Liberi dal male: il virus e l'infezione della democrazia", edito da Feltrinelli, dedicato al Coronavirus e alle sue conseguenze sociali, economiche e politiche.
Abbiamo incontrato il noto giornalista a margine dell'incontro, avvenuto a Rovereto, alla sala della Filarmonica, nell'ambito della sezione Linguaggi del festival Oriente Occidente, in collaborazione con la libreria Arcadia.
Mauro, quel titolo, «Liberi dal male», non ha punti interrogativi. Significa che il peggio è passato?
«È una dichiarazione di fiducia nella capacità umana di fronteggiare l'emergenza. Non dobbiamo cadere nella paura primitiva, ancestrale, stratificata, di depositi millenaristici, che mette in crisi il rapporto tra scienza e politica come centro delle decisioni».
La politica italiana ha gestito in modo adeguato l'emergenza dei mesi scorsi ed è pronta a nuove emergenze?
«L'emergenza chiede centralismo e rapidità di decisioni. Ma deve esserci il controllo del parlamento e le misure eccezionali devono essere temporanee. Si è certamente abusato dei decreti del presidente del Consiglio dei ministri e sono state poco coinvolte le opposizioni, ma complessivamente il governo italiano ha gestito adeguatamente la situazione. L'Italia è stata la cavia occidentale dell'emergenza. Non confrontabile con la Cina, autoritaria, totalitaria. Anche dopo il nostro buon esempio, tanti altri Paesi hanno commesso errori».
E noi, quali errori abbiamo commesso?
«I troppi morti in rapporto ai contagiati nelle classifiche mondiali ci dicono che ne abbiamo fatti. Confusione, dubbi inutili sull'utilità delle mascherine, ricoveri vicino a persone fragili, paura di chiudere alcune zone rosse molto produttive economicamente».
Cosa abbiamo imparato?
«Sono venuti fuori i buchi della sanità. Aver smantellato la sanità territoriale e la medicina di base è stato un errore. In Lombardia si era magnificata la privatizzazione della sanità e ci si è dovuti ricredere».
C'è stata anche una sorta di campanilismo regionale nel rivendicare una buona gestione dell'emergenza… «Indubbiamente in Veneto Luca Zaia ha gestito egregiamente la situazione. In Lombardia Attilio Fontana, dello stesso colore politico, ha fatto errori e è finito in qualche scandalo, come quello del Trivulzio e dei camici. Non è stato positivo vedere le regioni in conflitto e porsi come controparte rivendicativa dello Stato. Le regioni compongono lo Stato, sono parte del sistema, servono misure omogenee».
La politica ha ascoltato troppo o troppo poco la scienza e gli esperti?
«C'è da dire che avevamo erroneamente il culto dell'invulnerabilità: ci sentivamo protetti dalla scienza e dalla medicina, tranquilli, nel cosiddetto primo mondo. Gli esperti non hanno dato un bello spettacolo: i più onesti hanno ammesso che si sapeva poco del virus. Tanti altri, infettivologi, virologi, epidemiologi, matematici che elaboravano previsioni sul contagio, hanno battibeccato come politici in un talk televisivo: sulla mutazione del virus, l'immunità, l'incidenza sulle donne. La scienza, comunque, è un driver, fa il quadro tecnico: ma a capotavola, per le decisioni, deve esserci la politica».
E i media? Hanno raccontato in modo corretto la pandemia?
«Generalmente sì. Con tanti inviati di giornali e tv nelle zone più colpite. Ho letto e archiviato molti ottimi articoli scritti verificando sul campo».
Che conseguenze ha provocato in campo sociale, politico ed economico il Coronavirus?
«Oggi dobbiamo combattere tre virus. Quello sanitario: in gioco ci sono vite umane, a livello globale. La Russia ha annunciato per prima un vaccino. La Cina lo sta sperimentando su medici, infermieri e militari. L'Europa è, come sempre, piuttosto assente in questa competizione. Poi c'è il virus economico: il mondo si è fermato e fa fatica a riprendersi. E c'è un'emergenza politica e socio-culturale: ci siamo disconnessi dalla vita pubblica. Ci siamo disabilitati come animali sociali».
Che prezzo hanno pagato gli anziani? La solitudine è aumentata?
«Per la prima volta i nostri anziani si sono sentiti vecchi. Come grandi consumatori, li avevamo sempre stimolati e considerati. Da marzo si sono sentiti una categoria a rischio e designata a dover cedere il passo e i respiratori ai più giovani, nelle terapie intensive. Si è dimenticata la vita che hanno dietro guardando solo a quella che si ha davanti. E poi non dimentichiamo adolescenti e giovani: stanno vivendo una deprivazione, un buco culturale, senza scuola e socialità, che avrà costi ancora incalcolabili. Con la riapertura delle scuole i contagi aumenteranno, ma non si può bloccare il diritto all'istruzione».
Cos'altro di positivo ci ha insegnato il Covid, oltre a non sottovalutare il bene-salute collettivo?
«Beh, ad esempio ci ha insegnato che il lavoro è responsabilità sociale. Non solo quello del personale sanitario, ricordato più volte. Ma anche quello della struttura servente, del cosiddetto "mondo di sotto": parlo di chi produce il cibo, dell'autotrasporto, di chi ha pensato a portare l'elettricità nelle case in cui eravamo rinchiusi, al personale dei supermercati e dei negozi. Insomma, la spina dorsale della macchina-Paese».

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