Il nuovo libro di Paolo Miorandi oggi all'Arcadia di Rovereto

di Alberto Piccioni

Ogni essere umano prima o poi è chiamato a prendere in consegna la voce di un altro essere umano, leggiamo in «L’unica notte che abbiamo» (edizioni Exorma), il nuovo libro di Paolo Miorandi, scrittore e psicoterapeuta.

Il libro verrà presentato presso la libreria  Arcadia di Rovereto (in via fratelli Fontana, 16) oggi alle ore 19.

La presentazione inizierà con una lettura accompagnata dal chitarrista Michele Bonifati. Il libro esce a un anno di distanza da Verso il bianco. Diario di viaggio sulle orme di Robert Walser che, pubblicato da Exorma nel 2019, ha avuto un’accoglienza molto favorevole sia da parte della critica che del pubblico.

«In “L’unica notte che abbiamo” - ci ha spiegato l’autore - un uomo alla finestra ascolta e raccoglie parole che attraversano il silenzio e arrivano fino a lui come relitti portati dal mare su una costa solitaria. L’uomo risente Ia voce di un’anziana signora che, incontrata per caso un anno prima, gli ha raccontato la storia della sua famiglia: tre generazioni nell’arco di un secolo, dalla fine dell’800 alla fine del ’900. La notte diventa dunque per l’uomo lo spazio di un incontro solitario, dove è chiamato ad accogliere e custodire parole ed esistenze fino a poco prima a lui completamente estranee. Assieme all’anziana signora cerca tra le mura di un paese senza vita la ragazza che ha abbandonato il figlio - il padre della narratrice - poco dopo averlo messo al mondo. Rivede la maestra a cui il bambino è stato affidato, impegnata nella sua estenuante interrogazione di fronte al silenzio di Dio. Ripercorre la via dei campi dove la protagonista era solita camminare con la nonna materna. Assiste ai suoi conflitti con il padre, un sagace perdigiorno di paese che ha eletto i bar a propria dimora, ma intimamente e indelebilmente ferito dalla tragica esperienza della ritirata di Russia».

Qual è la relazione tra il suo essere scrittore e psicoterapeuta?

«Talvolta la psicoterapia ha a che fare con il prendere in consegna i frammenti della storia di qualcuno per provare a guardarli e ascoltarli senza troppa paura. Anche noi, come nell’immagine dell’Angelo della storia di Walter Benjamin, siamo spinti sempre in avanti dalla corrente del tempo, ma abbiamo la testa girata indietro verso le macerie che ci lasciamo alle spalle. Dico macerie perché quello che possiamo vedere c’entra poco con la narrazione ufficiale che ci facciamo, con l’ideale del sé che lustriamo per farlo brillare, soprattutto ai nostri stessi occhi. Le macerie sono le vite non vissute, le promesse mancate, gli incontri falliti, i fantasmi con i quali non siamo riusciti a fare pace. L’unica notte che abbiamo è il resoconto del doloroso, ma anche pacificante lavoro di scavo della protagonista tra le macerie della sua vita. Consegnandola all’uomo, la donna depone la sua storia in uno spazio fuori dalla sua giurisdizione, dove viene meno ogni pretesa di poterla cambiare, controllare, camuffare. Può semplicemente deporla e guardarla, provare a fare pace con ciò che è stato. Provare a dimenticare se ne sarà capace».

Quanta realtà c’è nella sua narrazione?

«Le vicende che racconto sono realmente accadute, realmente esistite le persone, autentiche le esistenze narrate, anche se, ricostruendole, ho dato ai protagonisti parole che non hanno detto e pensieri che non hanno pensato. Nel libro c’è l’intero catalogo delle miserie che investono le relazioni familiari: bambini abbandonati, fratelli che non si parlano, padri irresponsabili, madri depresse. C’è la volontà da parte della protagonista di non fare sconti, di non risparmiare ai morti le accuse, ma allo stesso tempo vuole stare ad ascoltare le loro giustificazioni, accogliere la ferita che li ha portati ad essere ciò che sono stati e a fare ciò che hanno fatto. In fondo il compito dei vivi è sì di ringraziare i morti per quello che ci hanno consegnato in eredità, ma altrettante volte, e per lo stesso motivo, di provare a perdonarli».

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