Antropofagie medievali

di Fabrizio Franchi


La tomba è lì, immediatamente a destra, varcato il portone d’ingresso della Cattedrale di San Vigilio. Pietro Andrea Mattioli (nella foto) sovrasta tutti i visitatori, pellegrini e cittadini che varcano l’ingresso di via Verdi. È un monumento per certi versi maestoso e ricco su cui campeggia un bassorilievo di questo medico e umanista di origine senese e in latino si racconta la sua vita. La sua figura è parzialmente tratteggiata in un recente libro edito dal Mulino, Il fiero pasto, scritto dalla studiosa Angelica Montanari che affronta un tema poco conosciuto e trattato, anche perché indicibile fino a qualche decennio fa: le antropofagie medievali.

Certo, ricorda Montanari, tutti conosciamo il «fiero pasto» del conte Ugolino descritto da Dante Alighieri e di come, rinchiuso nella Torre dei Ghirlandi, il pover’uomo dopo aver assistito alla morte di figli e nipoti decide di cibarsene. Quello era un episodio drammatico, a cui persino Dante in qualche modo concedeva benevolenza. Eppure la pubblicistica del tempo e gli studi storici, lasciano poche tracce evidenti di antropofagia diffusa, eppure l’ingestione di carne umana è documentata e il libro racconta e ci porta in un mondo di disperazione, tra carestie, fame, disperazione di madri costrette a mangiare i loro figli o di donne, come la matrona Proba, che nottetempo aprono le porte di Roma per aiutare orde affamate già intente a mangiarsi tra di loro. In realtà ne esce un quadro contradditorio, perché se da un lato pare documentata la tanatoprassi, dall’altra non era accettata e vi furono dibattiti all’interno di uomini di Chiesa sul destino di chi veniva mangiato e di chi mangiava. Sulla resurrezione di corpi letteralmente divorati, fatti a pezzi, ingeriti e quindi evacuati. Disquisizioni che possono apparire oggi puerili, ma che evidentemente segnalano qualcosa di più dell’indicibile.

Del resto la vicenda stessa del Simonino di Trento, rivela le accuse che venivano mosse agli ebrei rispetto all’ematofagia, anche se oggi, secoli dopo, ritroviamo vicende simili in altre parti d’Europa utilizzate per scatenare i pogrom contro gli ebrei. E furono diversi, tra i pensatori, a sostenere che l’antropofagia, scatenava l’ira di Dio.

È una narrazione in qualche modo anche dolorosa, ma illuminante, dei drammi a cui fu sottoposta una umanità brutalizzata dalle condizioni e dalle situazioni, dalla furia della violenza, non ultima chi pensava che divorando il cuore dei nemici in battaglia ne avrebbe ricevuto benefici e virilità.

Sono tempi bui, quelli che escono dalle pagine di Montanari, anche se il racconto ha sempre il passo e il distacco dello storico che dovutamente non si lascia distogliere da principi che in definitiva sono nostro patrimonio da tempi recenti, da una civilizzazione che ci ha portato a condannare queste pratiche, anche perché la Chiesa intuì che avallare queste pratiche avrebbe avuto conseguenze ben peggiori che il semplice disgusto, ma avrebbe potuto mettere in crisi le istituzioni sistemiche. Tuttavia, è rimasto in noi, il mistero, la leggenda di mostri divoratori, di vampiri, di mangiatori di bambini.
Certo è che la vicenda di Pietro Andrea Mattioli, o quantomeno la parte narrata nel libro, fa intuire che alcune pratiche erano tollerate, anche se Mattioli non è un cannibale, ma utilizza carne umana quale medicamento. La storia di Mattioli è particolarmente affascinante: nato a Siena nel 1501, si formò sugli studi classici a Padova, visse poi a Perugia dove divenne medico. Si trasferì a Roma, ma il sacco dei Lanzichenecchi lo spinse in val di Non. Uomo di talento fu preso sotto l’ala protettrice del principe-vescovo Bernardo Clesio che lo nominò suo medico personale. Morto Clesio, Madruzzo non lo volle e quindi fu chiamato a Praga alla corte di Ferdinando. Dopo varie vicissitudini tornò a Trento dove morì per la peste scatenatasi nel 1578.

Ma quello che qui interessa è la ricostruzione di una sua particolare attività legata all’utilizzo della «mumia». In pratica un composto di materia e liquami dei cadaveri utilizzato da alcuni medici quale medicamento. Lo stesso Mattioli ne racconta le virtù: «Giova all’emicrania, al ventre, al fegato, alle ulcere del canale della verga e della vessica». Anche all’interno delle conoscenze alchemiche serviva per curare numerosi mali come la lebbra, podagra, paralisi, cancro, fistole. Ma Mattioli racconta chiaramente come ricavare la «mumia» dai cadaveri e di servirsi per questo di chi muore negli ospedali e addirittura di utilizzare teschi umani quale rimedio casalingo.
Oggi per noi l’antropofagia, l’ematofagia, la tanatoprassi sono, appunto, leggende, misteri, raccontano l’indicibile orrore. È soprattutto sono tabu. E lì, sotto un tabu, con il passare dei secoli, sono stati sepolti.

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