Il make up artist Tamburini «Che stress i premi David dal divano di casa»

di Fabio De Santi

Nonostante le due nomination al David di Donatello, quella legata al film «Il traditore» di Marco Bellocchio, che ha fatto incetta di statuette, e alla pellicola «Il primo re» di Matteo Rovere, per Lorenzo Tamburini (nella foto, con Elio Germano) quella di venerdì è stata una notte dolceamara. Il make up artist trentino non è riuscito infatti a ripetere il successo ottenuto lo scorso anno con «Dogman» di Matteo Garrone ma il suo lavoro risalta comunque nel film di Bellocchio che ha ottenuto ben sei David. Il truccatore, nato a Rovereto nel 1977, vissuto ad Arco e che ora dimora a Torbole, ci racconta le sue sensazioni davanti al piccolo schermo nella notte del David ma anche le preoccupazioni per il futuro del cinema.
Tamburini, deluso per come sono andate le cose al David di Donatello?
«Assoutamente no, già l’aver ricevuto due candidature su cinque è stato per me motivo d’orgoglio ed ero già felice così. Fra l’altro ero convinto, com’è successo, che avrebbe vinto “Pinocchio” un film che ha una grande qualità e moltitudine di trucchi. L’avrei premiato anch’io».
Lei comunque ha fatto parte del team del film più premiato: «Il traditore».
«Sì, abbiamo fatto un bel lavoro, che molti magari non hanno notato, soprattutto sul trucco dell’attore protagonista Pierfrancesco Favino. Dal maxiprocesso in poi il Favino- Buscetta ha sempre le protesi addosso seguendo, anche nei minimi dettagli, i piccoli cambiamenti estetici a cui si era sottoposto il primo pentito di mafia. In certi momenti del film il volto di Buscetta racconta più che tante parole».


Cosa ci può raccontare del clima che si respirava attorno a un maestro come Bellocchio?
«Per me è stato emozionante lavorare con lui. È un gran maestro che seguo da “I pugni in tasca”. Bellocchio è prima di tutto un vero signore e poi un grande regista dal quale c’è sempre da imparare».
Quale impegno ha richiesto invece «Il primo re» di Matteo Rovere un film epico sulla fondazione di Roma, anche nella scelta dei dialoghi in proto latino?
«Sono contento che la produzione abbia vinto un Donatello. Nel momento in cui vanno per la maggiore i film della Marvel ci voleva del coraggio a puntare su un racconto storico. Matteo Rovere ha trasmesso grande entusiasmo a tutto lo staff: una bella sfida anche nella realizzazione del make up che abbiamo sostenuto in quattro vista la mole di lavoro. Una notevole fatica considerando i tempi e i budget italiani che non sono certo quelli americani».
Cosa ha provato nell’assistere dalla sua casa di Torbole alla cerimonia del David in un teatro vuoto per un’edizione destinata ad entrare nella storia?
«Direi che è stato abbastanza surreale stare sul mio divano in maglietta e pantaloncini corti. Un effetto se vogliamo straniante come se fosse una cosa che non mi riguardasse per nulla. Così come straniante è stato vedere quel teatro. Poi nei momenti in cui si aprivano le buste in realtà una certa palpitazione l’ho avvertita e anche maggiore di quanto mi aspettavo sia per il premio in cui ero in gara sia per le altre sezioni a cui concorrevano amici e film in cui sono stato coinvolto».
Il cinema italiano sta vivendo un momento drammatico.
«È una situazione difficile per tutti coloro che gravitano attorno al mondo dello spettacolo. Sono preoccupato per come, ad oggi, il settore non sia stato ancora preso in considerazione dal governo, o perlomeno non nella forma in cui avremmo sperato. Ci rendiamo conto che non siamo come altre categorie, medici in primis, preziose con il loro lavoro in questo frangente, ma la cultura, anche quella che si esprime attraverso le immagini, è comunque fondamantale per le nostre vite e per le nostre anime».
Come si può riorganizzare il suo lavoro di make up ai tempi del covid?
«Insieme ad altri colleghi stiamo cercando di stilare una sorta di “bibbia” dei comportamenti da adottare dietro e sul set. Purtroppo ci rendiamo conto che sarà molto difficile proprio per i contatti inevitabilmente necessari. Truccare e poi struccare qualcuno vuol dire trovarsi a stretto contatto anche per ore con una persona. In questo momento ci sono rischi troppo alti e anche responsabilità difficili da sostenere».
In questi mesi molti film sono stati proposti direttamente in streaming: cosa pensa di questa soluzione?
«Per chi, come me, ama godersi un film al cinema è una sofferenza che nessun megaimpianto casalingo ti può dare. Per molti il futuro sarà sempre più quello dello streaming: penso che alcune pellicole debbano andare sempre prima in sala mentre per altre, piuttosto che essere distribuite male come spesso accade, meglio avere la possibilità di essere visti on line da più persone. Ad esempio “L’uomo senza gravità”, il debutto alla regia di Marco Bonfanti a cui ho lavorato, è stato proposto sul grande schermo qualche giorno per poi essere lanciato e apprezzato in tutto il mondo grazie a Netfix».


A questo riguardo che fine ha fatto l’ultima pellicola cui lei ha collaborato, «Volevo nascondermi», dedicata ad Antonio Ligabue e diretta da Giorgio Diritti?
«Il film è arrivato in sala il 4 marzo, nei giorni precedenti alla chisura delle sale, sull’onda della vittoria dell’Orso d’oro a Berlino del protagonista Elio Germano. Da quanto ne so l’intenzione è quella di riproporlo nei cinema appena sarà possibile».
A quali progetti stava lavorando prima del lockdown?
«In ballo avevo un nuovo film e una serie tv in horror style, ma tutto ora è in stand by. In questo momento, di fatto, sono disoccupato».

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