Castellitto è «l'italiano che ha potere»

di Emanuela Castellini

Sergio Castellitto e il suo talento d’attore che lo porta a dare vita a personaggi sempre diversi, come l’avvocato Toti Bellastella - nell’opera prima di Valerio Attanasio Il tuttofare, nei cinema dal 19 aprile con Vision Distribution - Un principe del foro che prende nel suo studio un giovane laureato (Guglielmo Poggi) e con la scusa del praticantato, non lo paga, e gli fa fare di tutto, arrivando a fargli sposare la sua amante argentina perché possa così prendere la nazionalità italiana.

Il tutto con una moglie ricca (Elena Sofia Ricci) che non tira fuori un soldo.

Castellitto, per questo film si è ispirato a qualcuno?
«In Italia si fanno tanti film comici e poche commedie. Tutti conosciamo le differenze: noi abbiamo inventato la commedia all’italiana, quella drammaturgia che ci consente di ridere senza accorgersi subito che stiamo ridendo di cose serie. Io sono cresciuto a pane e Gassmann e Mastroianni, a pane Ferreri, Monicelli e Scola e ho imparato da loro. Credo di aver preso la capacità di raccontarci oggi con uno sberleffo, con un graffio, con rabbia. Il mio Bellastella è l’amalgama di vari personaggi, una silhouette di qualcosa che c’è, c’è sempre stato e ci sarà. Conosce gli strumenti della manipolazione.
È lo stereotipo dell’italiano che ha potere. Lo troviamo nella descrizione quotidiana della nostra classe politica, dove in continuazione si mischiano assurdità, credibilità e drammaticità».

C’è un motivo per andare a vedere «Il tuttofare»?
«Il pubblico avrà una bella sorpresa. I film non devono farti pensare mentre li stai vedendo, devono intrattenerti. È dopo che devono farti riflettere. Qui c’è un bel copione, c’è un’eccellente "gabbia" che permette a un attore di dare il massimo, la battuta in più, altrimenti riempie dei buchi. Tutto questo è un dono in più. E poi, gli attori sono bravi».

Questo è anche un film sul precariato, da genitore di quattro figli, quale riflessione fare sul perché siamo arrivati a tutti questi lavoretti che sviliscono le nuove generazioni?
«Io faccio un mestiere che è la quinta essenza del precariato. Nessuno mi può garantire, dopo 40 anni di carriera, che io possa fare un prossimo film. Recitare non è un diritto - il lavoro sarebbe un diritto - ma un attore recita se è bravo, altrimenti sta a casa. I miei figli hanno il privilegio di stare in un mondo familiare che li protegge. Ma questa questione dei giovani è diventata una sorta di slogan politico, quando poi siamo una società che va verso la vecchiaia. Tra un po’ di tempo nel nostro Paese ci sarà una maggioranza di ottantenni e quindi sappiamo che l’unica possibilità è di accogliere dei ventenni di pelle nera. Anche a quelli della mia generazione i "vecchi" hanno tolto qualcosa. Per esempio: il 16 marzo del 1978 quando hanno rapito Aldo Moro (al quale presterà il volto nel docufiction di Rai 1 "Il professore", ndr), mi hanno tolto il futuro e noi l’abbiamo tolto ai giovani in un altro modo».

Nel film si capisce che inseguire i propri sogni costa molto. Lei cosa ha sacrificato per il suo sogno di attore e regista?
«Io ho avuto solo privilegi dal mio mestiere. Sono stato fortunato negli incontri, ho fatto qualche errore di presunzione, ma ho capito presto che un attore sceglie un film per passione, per senso civile, per denaro.
Non lavoro più per ambizione ma per piacere. Poi, un piccolo scheletro nell’armadio ognuno di noi ce l’ha?».

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