Economia / La storia

Da Rovereto alla conquista degli Usa: Giovanni Francescotti, ristoratore a Nashville, vince anche la sfida tv “Little big Italy”

Dalla birreria-pizzeria Garibaldi nel capoluogo della Vallagarina, negli anni '80, al miglior ristorante italiano della nota città del Tennessee. L'impreditore roveretano, oggi 73enne, è stato il protagonista davanti alle telecamere del programma della Nove che mette a confronto i ristoranti

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di Giancarlo Rudari

ROVERETO. Dalla birreria-pizzeria Garibaldi (anzi, dal bar Pomino, per l’esattezza) al miglior ristorante italiano di Nashville (Tennessee, Usa). Ne ha fatta di strada Giovanni Francescotti, 73 anni, originario di Stenico e roveretano di adozione.

Ma i confini del Trentino, manco a dirlo, gli vanno (oggi come mezzo secolo fa) stretti perché lui ormai è un cittadino del mondo anche se più o meno ogni anno torna a far visita alle sue due sorelle (Rosanna residente a Rovereto e Adriana rimasta a Stenico) oppure porta gli amici in lunghi tour alla scoperta delle bellezze e del buon cibo italiani.

Lui, figlio di emigranti, ha fatto la fortuna negli Stati Uniti. E il suo nome, come l’insegna che campeggia all’ingresso del suo ristorante, è ormai entrato nel gotha della ristorazione made in Italy americana. Da Giovanni, nei vari ristoranti che ha gestito o dei quali è stato il proprietario, sono passati attori, personaggi politici, imprenditori, emiri e sceicchi...

«Tanti, tantissimi amici che apprezzano il nostro buon cibo e anche il buon bere, oltre che il clima che si respira nel nostro locale» afferma con orgoglio. Un clima di “italianità” che è stato, oltre ai piatti serviti, l’elemento che ha decretato la sua vittoria nella sfida di “Little big Italy” dedicata a Nashville.

Infatti le telecamere della trasmissione condotta da Francesco Panella sulla “Nove” hanno fatto la loro comparsa a Nashville mettendo a confronto tre ristoranti di cucina italiana

Una bella soddisfazione...

«Indubbiamente, ma è il risultato di anni e anni di duro lavoro, di impegno per dare sempre il massimo come esigo da me stesso e dai miei collaboratori. Puntare sempre in alto partendo magari da situazioni non sempre facili, come quando a Rovereto...».

Dove lei arriva comunque nel 1978, all'età di 28 anni. Ma prima che aveva fatto?

«La nostra è una famiglia di emigranti. Io sono nato a Stenico e con tutta la mia famiglia (i genitori Silvio e Virginia e le tre sorelle Maria, Rosanna e Adriana, ndr) all’età di sei anni ci siamo trasferiti a Londra, dove ho fatto tutte le scuole. Poi piano piano, mio padre è morto giovane, siamo rientrati in Italia: nel 1973, tornato a Stenico, ho lavorato un po’ in discoteca, al Pra Vert dove venivano i Nomadi una volta l'anno perché erano amici del padrone, poi a Villa Banale dove ho fatto il barman per un po’ di anni. Poi abbiamo comprato un’azienda, il Gassosificio Cipriani a Borgo Sacco, che forniva bibite e birra Forst a Rovereto e dintorni e quindi abbiamo comprato il bar birreria Garibaldi, che prima di noi si chiamava Pomino, il bar più vecchio di Rovereto. Era di Ivo Dossi. Con due delle mie sorelle (Rosanna e Maria, la più giovane, morta l’anno scorso, ndr) l’abbiamo completamente rifatto per trasformarlo in pizzeria, tavola calda e grill. Tutte e due lavoravano nel locale: Rosanna era la più esperta pizzaiola, mentre Maria, che ha sposato Paolo Rosa, anche lui nell’attività, diventerà anche professoressa di inglese (la mitica “Miss Mary” dell’Arcivescovile, ndr)».

E lei Giovanni, quanto rimane alla pizzeria Garibaldi?

«Tre anni solo, dal ’78 al gennaio ’81, perché poi - avevo già una moglie americana - sono emigrato negli Stati Uniti. Andava molto bene, la pizzeria-ristorante a Rovereto, fino a quando nel 1988 i miei familiari sono stati cacciati furori perché poi lì hanno realizzato un’agenzia di viaggi».

Come ricorda il suo periodo roveretano?

«È stato bellissimo anche se per pochi anni. In America, a New York, i genitori di mia moglie avevano un ristorante ma non mi sono mai associato con loro perché avevano una cucina molto stanca, italo-americana, che non rappresentava il mio stile. Ho sempre lavorato da solo e dopo un anno e mezzo ho avuto la fortuna di trovare un locale veneziano appena aperto, dove avevano portato la cucina dell’Harry’s bar: sono andato lì come cameriere e dopo tre anni, grazie agli insegnamenti di Ettore Alzetta e del capo barman del Danieli, ero già socio. Al ristorante “Castellano”, il miglior posto italiano a New York negli anni Ottanta, avevo come cliente Andy Wharol, fotografi, gente della moda. Nel 1986 ho aperto anche una pizzeria e poi nel 1994 la prima insegna con il ristorante “Giovanni” vicino alla Fifth Avenue».

E la sua avventura a Nashville?

«Accadde nel 2008, quando tanti clienti del mondo della musica mi hanno chiesto di aprire un ristorante qui, dove ho ritrovato, tre anni dopo, il mio amico Giovanni Pinato, chef che lavora ancora con me. A New York avevo clienti di alto livello che arrivavano dalla Lehman Brothers e da altre banche e aziende travolte dalla crisi del 2009: ho deciso di chiudere nella “Grande mela” e di tenere aperto Nashville».

Una vita avventurosa la sua...

«Potrei scrivere una decina di libri (ride, ndr). Certamente non è stata monotona. Conoscere l’inglese mi ha ovviamente facilitato, ma la mia vita è fatta di tanto lavoro. Ma c’è anche una componente dettata dalla fortuna. Alla base però resta il fatto che bisogna essere professionisti e saper lavorare. Comunque l’America dà ancora soddisfazioni, anche se ormai anche qui la politica fa schifo. Mai come in Italia, però».

A Rovereto lei torna?

«Due anni fa sono venuto per due settimane, ma sono rimasto due mesi perché mi sono preso il Covid due volte: non stavo male ma mi sono fatto dieci giorni di ospedale a Rovereto e altrettanti a Trento. In Italia vengo volentieri e come prima tappa faccio sempre Rovereto, da mia sorella Rosanna. Verrò anche in agosto, per il matrimonio di mia nipote, figlia di mia sorella Maria...».

Con lei lavora sua figlia?

«Macché: ha fatto la scuola da chef, ma preferisce lavorare nel mondo della moda».

Come è andata la trasmissione “Little big Italy”?

«Non c'è concorrenza per me qui a Nashville... L’altro ristoratore in gara, quello della pizzeria Bella Napoli, è stato il mio allievo a New York».

Il suo ristorante è di livello...

«Di altissimo livello, con prezzi carissimi, lista dei vini astronomica per una bella clientela».

Ha vini trentini?

«Ci mancherebbe! Vado pazzo per i vini trentini come il San Leonardo di Guerrieri Gonzaga e il Granato di Elisabetta Foradori, tanto per citare soltanto due delle tante cantine trentine che ho in carta. Ma sono apprezzatissimi anche i vini altoatesini, il Sassicaia ed altri toscani».

E altri prodotti trentini?

«Speck e grappe che "parlano" trentino e piacciono molto».

Clientela disposta a pagare parecchio per mangiare e bere bene...

«Ho clienti italiani e stranieri che possono spendere: quando l’altro giorno erano qua i vertici della Ferrari, che ha aperto uno show room, io ero al Gran premio del Barhein, ospite tra l’altro del principe ereditario Salman per il suo party esclusivo con solo 600 invitati da tutto il mondo, molti dei quali sono passati anche da me...».

È stato così facile passare dai tempi del Pomino e della pizzeria Garibaldi al jet set internazionale?

«Credo, senza peccare di presunzione, di essermi guadagnato questo risultato. In tutti questi anni di lavoro mi sono fatto apprezzare sia per la cucina (a detta di tutti buonissima) che per le doti, diciamo così, di “italianità”. Ah, mi parlava di jet set? Avevo capito che mi chiedeva se avevo un jet privato (ride, ndr). No, lo hanno tutti i miei clienti-amici: io, tra tutti loro, sono il più povero. Sa che li ho portati, non tutti ovviamente, anche in Italia? A Rovereto, alloggiati nell’albergo di corso Rosmini, lungo la Strada del vino in Alto Adige, poi in Toscana e in giro per l'Italia...».

A suo livello si contano le stelle Michelin?

«Le stelle Michelin sono una cosa politica, non cerchiamo di averle e non le voglio. Perché è come quando esce una recensione positiva ad esempio sul New York Time: di colpo ti ritrovi con così tanta gente che rischi di fallire perché non puoi seguirla bene».

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