Festival dell’Economia

Swipe, a lezioni di beat con Andry the Hitmaker: l’intervista al producer

All’interno del Festival dell’economia una parentesi più che musicale: la formazione per i ragazzi presenti è stata curata proprio dal produttore, capace di accompagnare nell’ esplorazione del proprio percorso creativo. Andrea Moroni, producer milanese classe ‘95, ormai veterano della scena italiana, ha raccontato la sua esperienza

Diego Morone

TRENTO.  A prescindere da quale sia il tipo di espressione artistica, il processo creativo rimane una sorta di mistero. Non ci è dato saperne molto, soprattutto quando si parla di produzioni musicali: un tag, le basi, ma il confronto diretto è spesso lontanissimo ed è difficile avere anche familiarità con i volti - centrali nel prodotto completo e commercializzato.

Ieri, nella sede della fondazione Caritro c’è stato modo di sollevare quel velo che separa l’ascoltatore dalla musica vera e propria: Andry the Hitmaker, al secolo Andrea Moroni, producer milanese classe ‘95,  ormai veterano della scena italiana, ha raccontato la sua esperienza durante l’evento. Di seguito l’intervista. 

Hai prodotto tracce su tracce, svariando anche nello stampo delle produzioni. Quale senti che sia la tua zona “comfort”, sia musicalmente che in studio? 

Sicuramente se mi trovo in studio con artisti con cui ho tanta confidenza, dove c’è anche un lato umano significativo - come con Giaime o con Boro - la differenza si sente. Con loro c’è un rapporto acceso, poi chiaramente nel mio genere, l’hip hop, sono più a mio agio. Per esempio con Angelina Mango sono uscito dalla mia zona zona di comfort, mantenendo però centrale il mio timbro.

Parliamo di fare beat al Festival dell’Economia: quanto è cambiato il mercato nel ruolo del producer? C’è una totale libertà nella scelta di cosa produrre?

Anni fa ero più libero di scegliere cosa produrre perché non c’era una richiesta specifica da parte del mercato musicale. Facevi una canzone, suonava bene, se piaceva il mercato ti premiava: adesso ci sono delle regole di mercato, come delle mode, da seguire. Potremmo dire che è un fattore limitante.

Nel 2018 con Dikele, per Esse, parlavi di un gap da colmare con gli Stati Uniti, è ancora percepibile tra producer italiani?

Il gap non c’è più. Ai tempi dell’intervista era un discorso strumentale, si parlava di cosa si poteva avere in studio: la musica stessa mi ha permesso poi di averlo, parliamo di synth e microfoni.

L’ideale romantico per gli States non cambia, però.

Quello è il mio obiettivo. Devo ringraziare questo Paese perché mi ha permesso di diventare quello che sono, ma il mio obiettivo finale è arrivare in America.

Qual è la strada da seguire per farlo?

C’è da rifare la gavetta, quella già fatta qui negli anni. Si tratta di un mercato più saturo del nostro, però il sound diverso può giocare a nostro favore: gli americani sono più chiusi nella loro bolla musicale.

Oltre dieci anni fa eri già in Dogozilla. Qual è stata la chiave per avere una continuità simile?

Sicuramente il non fossilizzarsi su di un singolo artista. Avere esperienze con altri producer e altri artisti ti permette di tornare a fare musica, anche insieme, dopo tempo, con molta più ispirazione, prendendo ispirazione anche da altri.

Parlando appunto di duo, il tuo sodalizio con Giaime è tra i più famosi nel rap italiano. Ce lo racconteresti?

Arrivavamo da situazioni diverse, ma comunque per entrambi difficili. Si parla di contratti, della ricerca di una direzione “giusta”: io volevo essere più autonomo, seguire un rapper nella direzione artistica e nelle basi, per creare in seguito i primi Gimmy Andrix. Poi abbiamo prodotto altri singoli, cercando sempre una chiave di volta musicale.

I rapper hanno i testi a parlare per loro. La credibilità di un producer come si stabilisce?

Per noi produttori è la scelta del suono, come li usiamo. Anche l’artista che riesce a dare un’anima al beat, creando un mood e un’identità propria. Quello che i miei ascoltatori mi hanno sempre fatto notare è l’utilizzo delle batterie, il fatto che le abbia sempre utilizzate in maniera diversa rispetto agli altri producer.

Momenti di formazione simili a quello proposto durante il Festival, quanto sono importanti?

Sicuramente è stato divertente e complicato. Per me è la prima volta: è un po’ essere nudo davanti a delle persone che non conosci, si mostra un lato che vedono i rapper, i producer o comunque amici e colleghi. Per quanto possa essere stato complicato è sempre bello percepire l’interesse e ricevere domande sensate.

(Foto Istituto Artigianelli) 

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