"Din Don Down. Alla ricerca di (D)io", il divino visto da Paolo Ruffini e dagli attori della compagnia Mayor Von Frinzius
Parla l'artista in scena stasera, 24 maggio, all'Auditorium di Trento per il Festival dell'economia: "Credo sia uno spettacolo divertente, cattivello a tratti e anche pungente che si svolge in un fantomatico convento, fra preti e suore"
TRENTO - Spregiudicato, irriverente, a tratti dissacrante, “Din Don Down” è l’antidoto ideale per un’epoca che sacrifica ogni forma di leggerezza e audacia all’altare del politicamente corretto. Queste le coordinate di “Din Don Down - Alla ricerca di (D)io” il nuovo spettacolo di Paolo Ruffini e gli attori della compagnia Mayor Von Frinzius proposto per il Festival dell’Economia il 24 maggio, dalle 21, all’Auditorium.
Ruffini, in onda su Radio 24 insieme a Federico Parlanti, torna in scena sempre intento a resistere alle sfrenate incursioni degli attori con disabilità in questo caso alle prese con tutti i dilemmi e le questioni che riguardano il divino, a prescindere dalle forme o dalle sembianze in cui ciascuno possa riconoscerlo.
Paolo Ruffini, da quali esigenze è nato “Din Don Down"?
“Da tempo con Lamberto Giannini ci interrogavamo su quello che poteva essere il seguito di Up&Down che esisteva dal 2016. Io pensavo a qualcosa di epico e mitologico e poi siamo arrivati a qualcosa di religioso. Così, se il tema dello spettacolo precedente era la felicità, ora toccava a Dio. Il sottotitolo è importante perché intreccia Dio al nostro io: la ricerca del divino spesso si lega a quella di noi stessi perché alla fine credo che Dio sia all’interno di noi, nella nostra vita. Credo sia uno spettacolo divertente, cattivello a tratti e anche pungente che si svolge in un fantomatico convento fra, preti e suore”.
In quale modo l’esperienza con la compagnia Mayor Von Frinzius ha cambiato il suo modo di intendere la comicità e la comunicazione?
“Questa esperienza mi ha portato a immaginarmi un altro tipo di lettura rispetto al teatro disabile che di solito era sempre perimetrato nei circuiti off, nel teatro d'élite. Credo invece che la disabilità sia un elemento pop, non è da relegare a un certo tipo di popolazione, è una tematica che affrontano milioni di famiglie italiane, a maggior ragione oggi che si parla tanto di inclusione. Si smetterà di farlo quando entreremo in un ristorante stellato e potremo trovare un cameriere, un sommelier, un personale di sala o cucina con la sindrome di down o con una disabilità. Non ne parleremo più perché non ci sarà più bisogno di farlo”.
Lei ha trasportato questo concetto al teatro.
“Sì e mi sono reso conto che abbiamo tutti un corpo e un anima quindi tutti possiamo fare ed essere degli attori. Poi ci sono persone che fanno gli attori e persone che lo sono e non possono evitare di esserlo: penso a Troisi e a Totò e loro non avevano scampo, erano degli artisti e lo sarebbero stati nelle loro vite anche se avessero svolto altre mansioni, ci si nasce così”.
Lei ha detto che lavorare con loro le permette di avere altri punti di vista.
“Puoi nascere con la sindrome di down, puoi nascere anche attore, quindi per me è una benedizione lavorare con questi colleghi che fanno beneficenza nei miei riguardi perché mi aiutano ad avere un altro punto di vista rispetto al mio lavoro, al mondo, alla vita, alla felicità e quindi è tutto molto più interessante perché conosco un altro punto di vista rispetto all’invidia, all’economia. Loro non sono interessati al denaro ma sono alla vita, ad altri concetti diversi da quelli che minano e inquinano la bellezza di fare l’attore e lavorare nel mondo dello spettacolo. Sono diventato quasi dipendente dalle persone con disabilità e mi preoccupa molto perché dopo la tournée quando vado a lavorare con i colleghi non down è tutto diverso”.
Al di là di questa occasione lei spesso intervista bambini e persone con fragilità: qual è la sua regola per entrare in relazione con loro?
“La regola per entrare in relazione con persone fragili o coi bambini è quella di non modificarsi, di non fare sconti. Detesto il pietismo, credo sia una forma di ipocrisia che allontana invece di avvicinare, che esclude invece di includere. Forse non includo neanche perché non vedo esclusione, guardo con sospetto parole come inclusione, tolleranza perché presuppongono un esterno rispetto a te. Le persone che incontro invece le reputo esattamente come me, mi rivolgo a loro con la stessa pace nel cuore, ecco non cambio cuore a seconda dell’interlocutore, tengo il mio e mi ci relaziono con semplicità come ho imparato dai bambini che parlerebbero al Papa o a un signore che incontrano con la stessa emozione e questa cosa è entusiasmante perchè vuol dire considerare che l’altro sei un po’ te, ci si trova specchiati nello sguardo dell’altro diceva Levinas, ama il prossimo tuo perchè è te stesso più che come te stesso, incontri un altro essere umano che è esattamente te”.
Questa relazione è una sua qualità.
“Tra tanti talenti che non ho questo forse questo mi riesce: parlare con le persone a prescindere dalle loro peculiarità, delle loro caratteristiche, della loro età, rivolgermi alle persone con semplicità e senza strutture mentali, senza paraocchi, senza pareti. Fondamentalmente quello che sto facendo lo definirei un reality, incontro persone reali, forse sono i reality che non hanno più persone reali ma quelle che intervisto io sono persone di tutti i giorni, che si incontrano, persone vere e quella verità che forse diventa paradossale in televisione perché soprattutto nei reality non ci sono persone vere ma frutto di eccezionali casting, ragionamenti e strategie ma manca la verità e Pasolini insegna che la realtà quando viene rappresentata è sempre più interessante di qualsiasi canovaccio “.
Nei suoi ultimi lavori sembra voler superare il semplice “intrattenimento”: oggi, cos’è per lei la responsabilità di un artista?
“Io in realtà mi fido ancora tanto della parola intrattenimento che può essere letto in tanti modi. Penso ai babysitter che è un format social che sta avendo un successo televisivo e non mi capitava dai tempi di Colorado che qualcuno mi fermasse per strada dicendo sei quello del babysitter. Quando diventi “quello del” vuol dire che quel format è permeato all’interno di un immaginario. Mi sono reso conto che il pubblico non fa le differenze che fanno gli addetti ai lavori perché capita che mi dicano “mi piace la trasmissione che fai” ma babysitter non è mai andata in tv. La televisione viene spillolata per andare sui social e quello che vedo sui social può essere o non essere televisivo ma è comunque una trasmissione, quindi i social sono un contenitore che possono contenere anche cose televisive mentre la televisione non può contenere cose social e paradossalmente non avvicina così il pubblico quanto i social che sono un territorio minato, un mezzo che deve essere attenzionato e che merita una legislazione più accurata che però è molto più vicino allo spettatore perché può essere fruito in vari momenti. Mentre tutti quanti noi non abbiamo la televisione mentre stiamo in stazione, abbiamo invece in tasca un telefonino che ci consente di avere una piccola tv, costruendoci un piccolo palinsesto ed essendo gli editori di noi stessi. Il problema dei social è che manca un editore e il vantaggio dei social è che manca un editore quindi diventa lo spettatore stesso diventa un’emittente e questa è la grande rivoluzione media della nostra epoca”.
Quindi nell’intrattenimento è come si fossero invertiti i ruoli.
“Sì, l’intrattenimento oggi non è più il pubblico che cerca te ma sei te che cerchi un pubblico e questa cosa cambia tanto le cose, col politicamente corretto è cambiato il senso dello scherzo, penso che una delle cose più volgari di questo momento sia il politicamente corretto. Mi piace citare Papa Francesco quando l’anno scorso ha letto una bellissima preghiera di San Tommaso Moro che dice “Dammi, Signore, il senso dell’umorismo. Fammi la grazia di capire gli scherzi”. Noi siamo un popolo che oramai non ha la grazia di capire gli scherzi e non siamo neanche più buoni, tutta questa ondata woke al posto di portare condivisione e comunione porta solo barriere, più esclusioni e più scaffali”.