Riforma Bernini, "ombre e luci": l'intervista al rettore dell'Università di Trento
Dopo le polemiche dei sindacati (Cgil, con Adi) e le discussioni tra rettori (al Crui), parla Flavio Deflorian: "Miglioramenti possibili, i problemi riguardano il sottofinanziamento della ricerca". Sui privati invece: "Finanziamenti necessari, non devono però dettare temi e risultati"
TRENTO. Si tratta di un periodo sicuramente particolare per le università italiane, in particolare per la ricerca: il sistema universitario è stato scosso da proteste e scioperi, ma soprattutto attriti, intorno alla “Riforma Bernini”, il Ddl 1240. La riforma punterebbe a colmare le carenze del sistema universitario riguardo all’occupazione e alla definizione dei ruoli dal dottorato di ricerca in poi, facilitando il percorso di giovani ricercatori e ricercatrici verso la carriera accademica.
A inizio febbraio, Adi (Associazione dei dottorandi e Dottori di ricerca Italiani) e Cgil hanno presentato degli esposti alla Commissione europea contro tale riforma, ritenuta incompatibile con gli impegni del Pnrr sulla stabilizzazione lavorativa dei ricercatori precari.
Il 20 febbraio, la ministra Bernini ha annunciato la sospensione della discussione parlamentare in virtù di queste rimostranze. Le novità che verrebbero introdotte da questo disegno di legge sono stato oggetto di discussione a tutti i livelli accademici: questo il motivo per cui abbiamo intervistato il Rettore dell’Università di Trento, Flavio Deflorian.
Riforma Bernini: che cos’è agli occhi di chi dovrebbe mettere in pratica gli strumenti che questa delinea?
Quando si parla di questi temi è necessario fare un po’ di chiarezza, poiché “Riforma Bernini” è un’etichetta “giornalistica” con cui ci si riferisce a un progetto di riforma del cosiddetto “pre-ruolo universitario”: questo disegno di legge era in realtà richiesto dalla Commissione europea stessa, attraverso i criteri di assegnazione del Pnrr, che imponevano una revisione di queste strutture e figure intermedie.
Dopo il dottorato di ricerca, per anni non abbiamo avuto altro che assegnisti di ricerca: contratti a progetto, con tempi e finalità ben definiti, eventualmente reiterabili anche molte volte. Si trattava di un inquadramento piuttosto ambiguo, a cavallo tra il lavoro e la borsa di studio. Dal 31 dicembre dello scorso anno questa figura non esiste più, salvo eccezioni, e dovrebbe essere sostituita dai contratti di ricerca.
Cosa cambierebbe concretamente?
Per come è concepito nel Ddl, questo nuovo inquadramento è simile nel principio, ma garantisce molte più tutele: contributi previdenziali specifici, maternità, malattia... Si tratta, insomma, di un vero e proprio contratto di lavoro dipendente. È chiaro che questo comporta oneri ben più significativi da entrambe le parti (per esempio, l’assegno di ricerca era esente Irpef, ndr). Considerate le limitate risorse economiche a disposizione degli atenei, questo aspetto va sicuramente tenuto in considerazione. A prescindere dagli interrogativi sull’effettiva implementazione della riforma, però, questa figura rappresenta senza dubbio un passo avanti. Va da sé che una Riforma Bernini “completa” debba includere anche un’altra figura intermedia. Si parla di introdurne diverse; io dico che ne basterebbe anche una sola, ma è imprescindibile. Ci deve essere una fase transitoria, un percorso intermedio tra il dottorato e un posto a tempo indeterminato. È ciò che la nuova riforma definirebbe “borse di ricerca”. È irrealistico, con franchezza, pensare che dopo un dottorato si possa ottenere subito un posto fisso, alla “Checco Zalone”, con un atterraggio morbido garantito.
Non solo: eliminare queste figure significa cancellare un modello di impiego flessibile, utile non solo per ragioni economiche, ma anche per progetti di ricerca con esigenze specifiche. Penso, ad esempio, ad alcuni progetti europei con scopi e tempistiche ben definite. I finanziamenti possono durare uno o due anni, e non è detto che quell’ambito di ricerca venga riproposto. Non avrebbe senso aprire una posizione a lungo termine: ecco che una soluzione simile ai “vecchi” assegni di ricerca torna utile. L’Università di Trento, poi, ha aderito nel 2017 allo Scholars at Risk Network, ospitando accademici provenienti da paesi in guerra o con forti limitazioni della libertà accademica. Anche nel loro caso, i contratti di ricerca potrebbero risultare scomodi, a volte persino sconvenienti.
Un leitmotiv del dibattito è l'idea che la riforma aumenterebbe il precariato.
Non sono d’accordo, per un motivo molto semplice: nella peggiore delle ipotesi, la situazione rimarrebbe invariata. Se la legge venisse approvata così com’è descritta nelle anticipazioni attuali, non ci sarebbe alcun cambiamento sostanziale, né in positivo né in negativo. Detto ciò, è giusto discutere il tema, anche in termini pratici: eventuali vincoli da porre, aggiustamenti. Ma la questione centrale resta sempre la stessa: il precariato è causato in primo luogo dalla carenza di finanziamenti e dall’abuso di determinate soluzioni contrattuali. È evidente che una cifra minima di assegni di ricerca, oppure di borse, non va bene né per il ricercatore né per l’università. Un percorso di adattamento dopo il dottorato, che resta un momento formativo, e prima di una posizione stabile, resta però inevitabile e necessario - nell’università come in qualsiasi altro settore. Nessuno contesta la legittimità di soluzioni come tirocini, praticantati o contratti co.co.co. (Collaborazioni coordinate e continuative, ndr), sono strumenti temporanei, flessibili, che hanno una finalità ben precisa.
Sappiamo che il dibattito ha toccato diverse sfere della società accademica, giungendo fino alla Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (Crui). Come si è svolta la discussione, quali sono stati i dubbi, le perplessità e le proposte che sono emerse dal dibattito?
Quando se ne è parlato sono emersi punti di vista differenti, che riflettono la diversità di opinioni di un gruppo di persone con interessi e priorità differenti. Premettendo che si tratta ancora di anticipazioni, perché la legge vera e propria non c’è, la Crui auspicava l’introduzione di alcuni vincoli sull’utilizzo delle borse di ricerca. Per esempio, il divieto di rinnovarle per più di due volte. Ciò non toglie che, sebbene ogni ateneo abbia caratteristiche proprie, la grande maggioranza dei rettori e delle rettrici fosse favorevole.
Alcuni, legittimamente, chiedevano che si facesse di più: speravano che la riforma potesse includere misure più concrete e coraggiose a favore della stabilizzazione del lavoro di ricerca. Ma anche questi ultimi riconoscevano il valore delle proposte contenute nel Ddl, se non altro come punto di partenza. L’argomento, in ogni caso, non è certo tra i più divisivi che siano stati affrontati.
Quali, invece, sono stati più divisivi?
Per fare un esempio, togliere il test di ammissione a Medicina e scremare gli studenti tramite il cosiddetto “semestre-filtro” ha destato molte più perplessità. La riforma si presenta come una “risposta alle necessità del sistema accademico”, andando a proporre nuove figure contrattuali.
L’ateneo di Trento avvertiva il bisogno di una riforma in tal senso?
Negli ultimi anni si era creata una situazione complicata, soprattutto nella fase di transizione tra il dottorato e l’accesso ai ruoli strutturati, dove la figura dell’assegnista di ricerca, pur essendo molto gettonato, presentava una serie di criticità. Dopo l’abrogazione degli assegni, ci siamo trovati in una situazione in cui non c’era né il vecchio né il nuovo ruolo, questo ha creato problemi molto concreti.
Alcuni progetti non riuscivano ad assumere le persone necessarie perché mancava proprio lo strumento giuridico per farlo. In questo senso, l’introduzione del contratto di ricerca è stata una risposta utile, anche se certo non sufficiente. È uno strumento più solido, più chiaro dal punto di vista giuridico, ma anche più oneroso, e quindi meno flessibile per gli atenei e meno accessibile per alcune categorie, come i giovani alle prime esperienze o i ricercatori provenienti da contesti fragili.
Serve ancora qualcosa in mezzo. Una figura intermedia, sostenibile, che non sia solo una versione rinnovata dell’assegno, ma che ne mantenga alcuni aspetti positivi, come l’esenzione fiscale, e che possa accompagnare i primi passi nella carriera accademica, senza gravare troppo sulle finanze degli atenei. Ecco, questo è un punto che sentiamo con forza anche qui a Trento: non è tanto il bisogno di cambiare tutto, ma il bisogno di avere strumenti chiari, efficaci e adatti alla complessità dei percorsi accademici di oggi.
Qualora dovessimo assistere ad uno sbloccarsi dello stallo della legge: quali sarebbero le ripercussioni su l'Università di Trento?
In generale ci aspetteremmo delle ripercussioni positive. Nell’immediato, ci dovremmo attivare per recepire la legge con un regolamento interno, e ciò richiederebbe un mese o due. Spesso, come già detto, c’erano le idee, i progetti, le persone disponibili, ma mancavano gli strumenti giuridici per fare nuovi contratti. Avremmo più opportunità per fare ricerca.
Negli ultimi anni, è sempre più evidente la volontà di lasciare spazio alle partecipazioni private nel campo dell’università e della ricerca. C’è il rischio di un’effettiva dipendenza da enti privati? Qual è l’attuale ruolo all’interno della nostra università?
Il ruolo dei privati ha un’importanza centrale per quanto riguarda le collaborazioni con le università, è importante porsi il problema dell’indipendenza delle università dalle influenze esterne. Negli ultimi anni, ci sono state riforme molto pesanti in determinati contesti, anche europei, in cui la politica finisce per interferire nelle attività di ricerca delle università. L’indipendenza nelle sue scelte deve essere sempre centrale, in quanto il condizionamento delle università da parte della politica e dei privati sarebbe un fatto gravissimo per la condizione degli atenei.
Al tempo stesso, però, non è una certezza che il pubblico sia meglio del privato: io sono dell’idea che sia meglio privato italiano che il pubblico di altri paesi europei. Due sono i temi centrali.
Quali?
L’integrità della ricerca - privata e pubblica - in termini di ambiti di lavoro, e la libertà delle università di portare i risultati che ottiene, e non quelli che il committente vorrebbe ottenere. La libera ricerca universitaria è sottoposta anche ad un altro rischio: che i temi di ricerca vengano dettati attraverso i finanziatori privati. Bisogna evitare che questo accada, ma farlo in maniera ragionevole.
Non possiamo respingere i finanziamenti privati per la ricerca, i finanziamenti pubblici sono in calo e serve necessariamente il sostegno dei privati per mantenere alti gli standard della ricerca nei nostri atenei. Non devono esserci condizionamenti da attori esterni – ad esempio, per brevetti e simili deve essere chiarita in maniera efficiente la gestione della proprietà intellettuale.
Quali sono le percezioni che si hanno dell’Università italiana? Con quali occhi possiamo guardare al futuro?
Bisogna guardare al futuro con fiducia, pretendendo l’impegno che la Costituzione richiamava già 80 anni fa. Devo averne per il ruolo che ricopro, e non potrei fare altrimenti visto che ho due figlie, entrambe all’università. Certamente ci sono delle criticità. Penso, ad esempio, alla tendenza - che non riguarda solo l’università ma anche altri ambiti - a concentrarsi troppo sull’idea che servano continuamente nuove riforme, quando spesso la vera chiave sta nel come queste vengono applicate. I miglioramenti sono possibili. I problemi, però, riguardano in primis il sottofinanziamento della ricerca universitaria.
La ministra Bernini sostiene che l’Italia è al massimo storico dei finanziamenti, ma i numeri non sembrano confermare questa affermazione. In termini di promozione e risorse, l’università non è sempre stata posta al centro come sarebbe stato necessario. Ci sono ancora persone che fanno fatica a sostenere i costi delle rette, e questo non è accettabile. Abbiamo assistito al proliferare delle università telematiche, gestito senza la dovuta attenzione - né verso le telematiche stesse, né verso le università in presenza.
Alcune storture sono state fatte e andrebbero corrette: penso, ad esempio, al dato secondo cui il 60% dei laureati in Scienze Motorie proviene dalle università telematiche, mentre in altri Paesi - per ragioni facilmente intuibili - la legge vieta che questa facoltà preveda lezioni erogate a distanza.
In mezzo alle ombre, ci sono, a suo giudizio, anche delle luci?
Io credo che l’Italia abbia delle università libere: con i loro acciacchi, certo, ma libere. Dobbiamo guardare al futuro con fiducia. È giusto farlo, malgrado le ombre. Partiamo da un sistema universitario di qualità e da un corpo studentesco molto impegnato e attivo. Quando mi viene detto che “non ci sono più gli studenti di una volta”, la prima cosa che penso è: “meno male”.
Gli studenti di una volta, anche quelli della mia generazione, hanno fatto un lavoro tutt’altro che perfetto, lasciando alle generazioni successive un mondo pieno di problemi. Partiamo da docenti e studenti che si stanno impegnando molto, da un’università popolata da persone che possono farla