Religione / Il caso

Il museo Diocesano, la mostra sul Simonino, le dimissioni di Primerano e il silenzio del vescovo Tisi

Che cosa è successo: ecco tutte le tappe di una frattura che lacera gli intellettuali di Trento, e che riporta il «fanciullino» ad essere un elemento divisivo, dopo secoli

di Fabrizio Franchi

TRENTO. Il Simonino a distanza di secoli è ancora un nodo irrisolto. E questi nodi irrisolti si sono riverberati sul Museo Diocesano fino alle dimissioni della direttrice Domenica Primerano che aveva invano chiesto la difesa del vescovo Lauro Tisi dagli attacchi, da una parte degli integralisti che ritengono intoccabile il culto del Simonino, e dalla parte opposta dalle critiche di un mondo laico che si è manifestato anche ieri con una lettera al nostro giornale.

Allora facciamo una ricostruzione per capire che cosa è successo per chi si fosse perso qualche puntata, facendo anche delle domande e dando qualche risposta.

Partiamo dall'inizio. A fine dicembre del 2019 inizia l'importante mostra «L'invenzione del colpevole. Il "caso" di Simonino da Trento, dalla propaganda alla storia». La mostra smonta tutte le fake news attorno alla vicenda del Simonino, dimostrando l'infondatezza delle accuse di omicidio rituale e di infanticidio rivolte agli ebrei, maturate in un clima di pregiudizi antigiudaici. Dimostra anche come fu la Chiesa, con il vescovo Hinderbach, nel 1475 a scatenare la strage degli ebrei costruendo una tesi falsa.

La mostra va, ottiene grandi attestati di stima. La direttrice del Diocesano, il 18 gennaio consegna a questo giornale una riflessione su questo successo, spiegando che la mostra diventerà permanente, riutilizzando anche la cappellina di San Pietro, nel luogo dove fino al 1965 era conservata la salma di Simonino, con l'esposizione anche di strumenti che furono usati per le torture degli ebrei giustiziati.

La decisione addensa nubi nere sulla testa di Primerano che avverte qualcosa e il giorno dopo chiede al giornale di poter chiarire che non c'è alcuna intenzione di ripristinare il culto, ma semmai di contestualizzare la vicenda nei luoghi storici. Ma non basta e non convince. Renzo Fracalossi stende una lettera, che però resta solo in alcuni circoli e poi viene mandata al vescovo Tisi, in cui ci va pesante, sostenendo che una scelta simile avrebbe l'esito «di sconfessare palesemente e platealmente il lungo lavoro di monsignor Iginio Rogger».

Sottolinea Fracalossi che si tratterebbe di «un'ipotesi folle e destituita di ogni senso, perché essa porta con sé il rischio immanente di scatenare fanatismi mai sepolti; di alimentare le sbalorditive teorie complottistiche che affollano la "rete"; di richiamare la "devozione" di antisemiti e negazionisti che mai hanno accettato le verità dimostrate della scienza, della storiografia e della fede».

A quel punto si incarica Anna Guastalla, archivista, di raccogliere le firme, spiegando che Fracalossi e Enrico Franco ritengono di non fare sapere nulla ai giornali per «evitare una risonanza mediatica che alza solo un gran polverone».

La lettera il 27 gennaio viene data al vescovo. Tra i firmatari l'ex giudice Carlo Ancona, Vincenzo Calì, ovviamente Enrico Franco, Renzo Fracalossi e l'altro giornalista Alberto Folgheraiter e il professor Diego Quaglioni che fa parte anche del comitato scientifico della mostra e forse poteva chiarirsi con una sola telefonata a Primerano.

A questo punto il vescovo si preoccupa. Mantiene la consegna del silenzio. Tra i firmatari c'è anche Elisabetta Rossi Innerhofer, presidente della comunità ebraica di Merano. Succede però che la mostra a metà febbraio venga visitata dalla presidente delle comunità ebraiche italiane, Noemi Di Segni, che apprezza il lavoro. E, pur interpellata, non firma la lettera. Cosicché anche Innerhofer ha un ripensamento e ritira la sua sottoscrizione dall'appello.

Ma Di Segni non si ferma. Scrive a sua volta una lettera a don Tisi esortandolo a resistere. Tutto viene messo in un cassetto. Il 23 settembre, il Diocesano vince il Grand Prix europeo per la didattica museale. Le motivazioni sono nette: «Mostra di grande rilevanza per il mondo contemporaneo in quanto impiega un metodo per creare un pensiero critico legato ai processi storici e decostruisce un esempio storico di fake news. Il progetto, frutto di una forte collaborazione con molti ricercatori, non è solo una mostra, ma anche un processo che è in corso e continuerà». Appunto.

La mostra diventa permanente. Il problema è che Primerano per mesi ha chiesto a Tisi di intervenire, ma ha trovato solo silenzio. Così l'8 agosto aveva già rassegnato le dimissioni. L'8 ottobre, alla consegna del premio, Tisi si spende in grandi lodi a Primerano senza chiederle però di ritirare le dimissioni. Anzi, si scoprirà che ha già individuato il sostituto, un docente di Economia.

Ieri, vanamente, abbiamo chiesto a Tisi di chiarire alcuni passaggi. Ma lui ritiene di aver detto tutto ciò che doveva dire.

Nel frattempo Primerano è partita per la Francia. E ieri Fracalossi, Franco e Folgheraiter hanno cercato di spiegare perché hanno mandato quella lettera. Perché «"L'invenzione del colpevole", peraltro lodevole in altri contesti, comporta una gamma di rischi talmente vasta da essere ritenuta inaccettabile. Infatti, il valore didattico e museale scivolerebbe comunque in secondo piano, davanti anche a una sola manifestazione idolatrica, esasperando il portato ideologico e narrativo di quella tragedia».

Insomma, ripetono quello che hanno scritto a Tisi.

Bene, ma se così fosse allora perché va bene il Museo ad Auschwitz? Non potrebbe anche quello richiamare dei fanatici? Inoltre, sostengono di rinnovare la stima nei confronti di Primerano. Se così fosse perché scrivere una lettera al vescovo, anziché chiedere chiarimenti a lei? Infine: sostengono che «abbiamo espressamente chiesto che tale missiva non fosse resa nota proprio per non alimentare strumentalizzazioni e polemiche».

Ma come? Vogliamo ripensare la nostra storia, chiarire le pagine buie, ma non vogliamo fare un dibattito pubblico che renda consapevole tutta la comunità? Ed è quello che vogliamo invece fare noi, sottolineando il valore di una mostra come il Simonino, per fare i conti con la nostra storia, così come li sta facendo la stessa Chiesa trentina. Senza che nessuno si arroghi la patente di legittimità su che cosa sia giusto e che cosa sia sbagliato discutere in merito alla memoria di questa città.

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