Franco Michieli, la libertà è andare a piedi, nella natura e dormire sotto le stelle

di Fabrizio Torchio

È il momento di immaginare un cambio di prospettiva nel nostro rapporto con la natura, di pensare a modificare gli aspetti culturali, e anche quelli normativi, affinché l’immersione nella natura possa essere un percorso formativo diverso, assumendosi la responsabilità di ciò che si fa.

Franco Michieli - giornalista e geografo, esploratore e scrittore più volte ospite del Trento Filmfestival -, ne ha parlato di recente nel numero di luglio di «Montagne 360», la rivista del Cai, ritenendo che sia giunto il tempo di «elaborare una versione adatta ai monti italiani dell’Allenmannsretten scandinavo (“il diritto di ogni uomo”), o dell’Outdoor access code scozzese, che prevedono un’unità stretta fra libertà di bivaccare con o senza tenda negli spazi naturali e responsabilità individuale di comportamento».

A Michieli, che il 30 luglio ha parlato di temi simili durante un’escursione sul Peller, nel Parco Adamello Brenta, per “Superpark”, e poi a Malga Fratte (nella foto) alla presentazione del suo libroi «L'abbraccio selvatico delle Alpi» con la Piccola Libreria di Levico,  abbiamo chiesto di spiegare meglio la sua visione.

Michieli, cos’è esattamente l’Allenmannsretten?
«Il diritto di ogni uomo è un corpo di leggi, nate nel tempo e definite nel corso del Novecento nei paesi scandinavi, e che in Scozia è simile con un altro nome. Queste leggi affermano che tutti possono accedere agli ambienti naturali, pubblici o privati, con le proprie forze, quindi a piedi, con gli sci, in bicicletta. Sono esclusi giardini, campi coltivati, recinti, allevamenti, ecc. Una cosa importante è che l’accesso contempla anche il montare la tenda o bivaccare dove si vuole, con delle distanze minime da fattorie, abitazioni, centri, rifugi. In Scandinavia è facilissimo essere lontani e nel caso dei rifugi si può montare la tenda, usufruendo dei servizi con un costo minimo, oppure si può farne a meno stando ad una maggiore distanza, ad esempio ad un chilometro. Questo si abbina ad una concezione di libertà e responsabilità affiancate molto diverse dalle nostre: ognuno si impegna ad avere la preparazione e l’attrezzatura necessarie, si va nella natura con la propria responsabilità. Questi spazi naturali, più vasti e meno abitati dei nostri, sono destinati ad un percorso di formazione e di preparazione diverso dalle nostre scuole teoriche. Tutti gli alunni possono fare esperienze di natura selvatica».

Sulle Alpi le densità abitative sono maggiori e gli spazi naturali meno estesi: occorrerebbe una versione “alpina” di questi concetti?
«Quest’anno, per effetto della pandemia, il pensiero che i rifugi avrebbero potuto essere poco praticabili ha fatto uscire il pensiero del bivacco. Da noi c’è più gente, maggiore densità di persone, minore preparazione e soprattutto una legislazione regionale che non prevede il rapporto di esperienza con la natura. Il punto cruciale per questo cambio di visione è che da noi viene inteso l’aspetto economico e l’esperienza si conforma a ciò. Spesso, la colazione negli alberghi di montagna viene servita dalle 8 e quindi si parte quando gli animali non si vedono più. Occorrerebbe un cambio di visione, vanno immaginate normative che valorizzano questa funzione di conoscenza e che dovrebbe essere complementare ad altri tipi di soggiorno. La frequentazione del territorio in Italia, per un terzo coperto da foreste, è concentrata in alcune località».

Nelle aree protette?
«Dovrebbe valere una zonizzazione, con la salvaguardia di determinate zone. Ci vuole una riflessione: sulle nostre montagne l’idea del bivacco alpinistico dal tramonto all’alba, con pernottamento molto leggere, è una base da ribadire. Si potrebbe allargare la possibilità di usare la tenda in modo più approfondito in modo che la società inizi ad accettare questo come un’esperienza coinvolgente».

Nelle sue lunghe traversate a piedi, bivaccando all’aperto, ha trovato difficoltà?
«Nel 1981, a 19 anni, ho traversato le Alpi a piedi con sacco a pelo e stuoia. Una sola notte è stata brutta, quando alle 9 di sera, a un passo a 2.350 metri si è abbattuto un temporale spaventoso, con fulmini da tutte le parti. Abbiamo abbandonato tutto e siamo scesi di un centinaio di metri in una conca, è durato tre ore e poi siamo tornati su. Abbiamo domito all’aperto anche durante la traversata dei Pirenei e saltuariamente ho fatto esperienza simili anche con i miei bambini».

Perché secondo lei è importante questo tipo di esperienza?
«È importante nel nostro tempo perché ci siamo allontanati dai ritmi dei cicli naturali, adattandoci ad una scansione del tempo diversa. Immersi nella natura, fermandosi quando fa buio, si è meno stanchi e più sereni. Avviene qualcosa per cui ci si sente più in sintonia con gli eventi naturali, scoprendo che c’è un’affinità fra noi e il mondo naturale. Le sequenze degli eventi trasformano la nostra concezione di relazione fra se stessi e ciò che ci sta attorno. Un dimensione spirituale perduta che si può recuperare immergendosi nella natura, un percorso formativo diverso, un cambio di prospettiva per non perdere il contatto con il mondo».

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