Wlodek Goldkorn alla Libreria Arcadia «Difendo la gloria della disfatta»

di Daniele Benfanti

Uno sguardo acuto, una voice analitica, mai banale. Un intellettuale chirurgico nella sua «forza tranquilla». Wlodek Goldkorn sarà a Rovereto domenica 13 ottobre, alle 17, alla Libreria Arcadia di Via Fratelli Fontana 16 , per presentare il suo ultimo libro, L'asino del Messia , edito da Feltrinelli. Nato a Katowice, in Polonia, nel 1952, ebreo non credente, Goldkorn nel 1968 si è trasferito con i genitori, costretti a lasciare il Paese per la loro appartenenza alla religione ebraica, in Israele. Dagli anni Settanta vive a Firenze. Scrittore, giornalista, è stato per due anni corrispondente dell'Espresso da New York e a lungo responsabile della cultura dello stesso settimanale.

Goldkorn, un titolo che suscita curiosità. A cosa è ispirato?

«In una certa teologia ebraica l'asino del Messia è colui che con intenzioni non del tutto buone accelera l'avvento del Messia. L'imperatore Tito, ad esempio, distruggendo il Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C., provoca una catastrofe. Libera però un'attesa. Libera lo spazio dell'immaginazione della parola dal peso del potere, rappresentato dal Tempio. Dalla catastrofe si liberano energie. Il Messia non è in un luogo, ma è la parola, la capacità del racconto. Non è, comunque, un saggio su Israele».

C'è molta autobiografia nel racconto del protagonista del libro, un sedicenne che lascia la Polonia per andare in Israele nel 1968?

«Certo. C'è tanto di me. I miei genitori, comunisti, furono costretti a lasciare la Polonia dal regime, che aveva deciso che gli ebrei erano nemici della patria. Per mio padre, giornalista e scrittore in yddish, fu una catastrofe, un fallimento personale. Un forte senso di esclusione, un progetto di vita compromesso. Per me sedicenne fu invece un nuovo inizio, da adolescente e immigrato che doveva in qualche modo farsi carico di quella memoria persa dai miei genitori».

Lei cita spesso la metafora del bosco e quella del deserto, parlando degli ebrei, ma è un discorso valido al di là delle religioni.

«Il deserto, che il popolo ebraico attraversa con fatica e sofferenza dopo la schiavitù in Egitto, è la promessa. È il luogo dell'astrazione, del rilancio della libertà, dell'utopia necessaria. La foresta, il bosco, al contrario, sono il luogo in cui si scappa dalle persecuzioni, il luogo della morte».

Nel suo libro emerge il concetto di identità multiple. Oltre vent'anni fa uno scrittore libanese come Amin Maalouf ha teorizzato la follia del concetto di identità unica e il pericolo delle sue derive?

«Non è un caso che Maalouf venga da un ex impero, quello Ottomano. Abbiamo perso quella normalità. Nell'Impero Ottomano come in quello Austrungarico o russo, e in quello Romano prima ancora, che avevano tanti difetti, era normale avere più identità culturali, parlare più lingue. Non convivevano in modo idilliaco, ma queste identità vivevano comunque accanto. È un'eredità che dovremmo preservare».

Come dobbiamo porci, allora, di fronte ai rischi seduttivi dell'identità unica?

«Come ci hanno insegnato figure come Alex Langer o Amos Oz: "saper tradire, senza essere transfughi". Cioè guardare alla propria comunità con gli occhi di chi la guarda da fuori o addirittura di chi non la guarda con favore. Questo non vuol dire passare con il nemico?»

Cosa resta ? dato che in Trentino siamo in una zona storicamente di confine e dalle identità plurime e complesse ? del mito Mitteleuropeo?

«È un mito interessante ma basta sapere, appunto, che è un mito. Recuperare la dimensione multietnica e multireligiosa non significa avere nostalgia. Anche allora c'erano oppressori e sfruttati».

A proposito di nostalgia, lei ha a cuore anche il concetto di nostalgia del futuro. Ce lo spiega?

«Significa che per costruire il futuro dobbiamo recuperare le memorie del passato. Non dei vincitori, ma degli sconfitti. Io sono un difensore della gloria della disfatta, della dignità della memoria degli sconfitti. I sogni, quando diventano realtà, di solito sono deludenti. Noi dobbiamo continuare a sognare, ma i sogni degli oppressi».

L'egoismo di una certa parte della Mitteleuropa, ovvero i paesi del gruppo di Visegrad, da cosa nasce?

«Ungheria e Polonia hanno cambiato confini molte volte negli ultimi secoli e anche composizione demografica. Sono Paesi che hanno subìto traumi pazzeschi. Quelli che chiamiamo sovranismi sono nazionalismi. Temo che quella del nazionalismo etnico sia una facile tentazione: ti dice che sei una vittima degli altri e che hai più diritti».

Esiste un'identità occidentale, anche culturale, o la globalizzazione ha frantumato anche questo concetto?

«Direi che soprattutto da quando c'è Trump l'Occidente ha perso ruolo e identità, non sa bene cos'è, è disorientato».

Dal punto di vista di chi, come lei, ha lavorato all'interno della cultura, la digitalizzazione mette in pericolo la produzione e la fruizione culturale?

«La qualità vince sempre. Il mezzo è relativo. Io ascolto molta cultura in radio. La tv non ha ucciso la radio, il cinema non ha ridimensionato il teatro. Grazie alla digitalizzazione posso portarmi in vacanza venti libri senza portarmi una valigia in più e leggere Repubblica anche dalla Thailandia?»

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