Nelle lettere di Focherini l'angoscia della moglie

di Alberto Piccioni

 Salvò degli stranieri, ebrei italiani, donne e bambini. Un centinaio di persone. Gli costò la vita. Morì a 37 anni in un campo di sterminio nazista: avrebbe potuto condurre una vita serena e senza grandi problemi. Ma come uomo e come cristiano, non poteva abbandonare quegli «stranieri» alla sorte orrenda che poi fu a lui riservata. Qualcuno fece la spia e lui finì in un lager in Germania.

Si chiamava Odoardo Focherini, nato nel 1907 a Carpi, ma originario di Celentino di Peio, in Trentino, da dove veniva suo nonno Tobia. Era sposato con Maria Marchesi, originaria di Rumo, sempre in Trentino, che con il marito condivise la scelta di rischiare pur di salvare quei perseguitati. Ebbe sette figli. L’ultima nacque poco prima che qualcuno fece la spia coi fascisti. Oggi è «Giusto tra le nazioni», onorificenza giunta dallo Yad Vaschem di Gerusalemme e «beato» dal 2013, per la Chiesa Cattolica, dopo una causa di beatificazione lunga vent’anni.

Tra la moglie Maria e Odoardo ci fu un’intensa corrispondenza durante il periodo della prigionia di lui: una parte (22 lettere inedite) è raccolta ora in Con tutta l’angoscia del mio cuore di sposa, (edizioni Dehoniane Bologna, 88 pagine 8 euro), con la prefazione del teologo Brunetto Salvarani.

Il nipote, Odoardo, in ricordo del nonno, Semellini, figlio di Olga, primogenita di Focherini, da sempre si è dedicato a custodire e valorizzare la memoria di Focherini che sua madre, pazientemente, ha ricostruito nel corso degli anni.

«Da giovane frequentava gli ambienti cattolici - ci ha raccontato Semellini - in un’epoca in cui la cultura fascista monopolizzava la gioventù. Don Armando Benatti fu uno dei suoi padri spirituali. Odoardo era un ragazzo molto attivo e fondò anche un giornalino, “L’aspirante” che nel giro di poco tempo diventò periodico di riferimento della gioventù cattolica locale. Il giornalismo diventò da allora un pezzo della sua vita. Arrivò col tempo a scrivere anche per "L’Osservatore Romano" e "L’Avvenire d’Italia". Nel 1925 incontrò Maria, anche lei originaria del Trentino».

Ma come mai a quell’epoca tanti trentini si trovavano in Emilia?

Probabilmente perché nella loro terra c’era povertà ed emigravano per trovare lavoro. Il mio bisnonno venne qui per aprire una bottega di vetraio. I Marchesi invece tornarono in trentino e Michele fu il primo a fare il “Trentingrana” dopo aver imparato come si faceva il grana nella zona di Modena. Tornando a Focherini, si sposò nel ‘30 e iniziò a lavorare come assicuratore. Nel frattempo iniziò la sua collaborazione stabile con “L’Avvenire d’Italia”. Ne divenne anche l’amministratore, ma in forma di volontariato, con un rimborso spese.

Che tipo di cattolico era?

Certamente aveva una fede profonda: era convinto che attraverso lo strumento del giornale fosse possibile tenere viva la cultura di ispirazione cristiana in un ambiente che andava in direzioni diverse.

Che tipo di posizioni aveva nei confronti del fascismo?

Come tutti allora era iscritto al partito fascista, per necessità. Non poteva esporsi più di tanto pubblicamente contro il regime. Lo avrebbero fermato subito.
Fino a quando non si trattò però di salvare degli esseri umani. Nel ‘42 gli giunse notizia di un gruppo di ebrei polacchi che stavano cercando di scappare alle deportazioni. Furono indirizzati a Bologna dove trovarono mio nonno. Da allora iniziò il salvataggio degli ebrei: Focherini ovviamente non avrebbe potuto operare da solo. Esisteva in Italia una rete clandestina. Dall’8 settembre del ‘43 in poi lavorò più intensamente, ma proprio perché agiva clandestinamente, di questa rete non abbiamo documentazione e sappiamo molto poco.

Quanti ne salvò suo nonno?

In modo documentato abbiamo la certezza di 105 ebrei salvati. Testimoni vivi di quegli eventi non ce ne sono più o se ci sono, all’epoca dei fatti erano molto piccoli. Qualcuno dei piccoli di allora si ricorda ancora di Focherini.

Quale era la loro destinazione?

La Svizzera per molti. Alcuni nelle terre liberate dopo l’8 settembre. Focherini si occupava di nascondere le persone fino al momento della partenza. Doveva preparare i documenti falsi. Aveva a disposizione la stamperia del giornale e riuscì a farsi dare qualche documento vuoto da alcuni complici all’anagrafe di Carpi. Lui grattava la gambina della “R” di “Carpi”. Alla “P” aggiungeva la gambina: la città diventava “Capri”. In questo modo se qualcuno veniva fermato dai tedeschi non era possibile controllare la veridicità del documento, perché Capri si trovava nei territori liberati.

Come veniva organizzato il viaggio verso la Svizzera?

Li faceva partire da Modena, uno nelle varie carrozze, per non farsi individuare facilmente. Al momento della partenza con loro c’era don Dante Sala, che aiutò Focherini per un periodo: lui teneva i documenti originari. Arrivati a Como con delle auto li trasportavano fino verso il confine. Poi con dei contrabbandieri arrivavano in Svizzera. Solo in quel momento don Dante dava loro i documenti veri, perché fossero accolti come profughi in Svizzera.

Come avvenne che Focherini fu arrestato?

Nel marzo ‘44 a Modena gli fu formalizzato l’arresto. Fu portato a Bologna in carcere. Non gli venne fatto alcun processo. A luglio fu trasferito al campo di Fossoli. Poi a Bolzano e infine a settembre andò in Germania, nel lager di Hersbruck dove morì il 27 dicembre del 1944. Fino a quando si trovò in Italia poteva scrivere lettere, alcune delle quali raccolte nel libro appena pubblicato. Mio nonno scriveva che era fiducioso di poter tornare a casa, per non spaventare la nonna. Ma la realtà che visse fu ben altra.

Chi fece la spia?

Non lo sappiamo esattamente. Mia madre Olga aveva un’idea, ma nessuna prova. Qualcuno del suo ambiente che avrebbe potuto avere qualche vantaggio dalla scomparsa di mio nonno. La mamma conosceva anche il nome di questa persona, ma non volle comunicarlo mai a nessuno. Costui nel frattempo era morto: Olga non voleva dispiacere i suoi familiari, che probabilmente erano del tutto innocenti.

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