Giustizia / Il caso

Si ammala dopo il Kosovo, pensione negata: giovane militare trentino costretto a congedarsi

La missione era stata nel 2007 e la diagnosi risale a quattro anni dopo. Il giudice dispone di una nuova consulenza medico legale affidata al ministero della Salute. Il suo avvocato: "Non ci arrendiamo"

di Marica Viganò

TRENTO. La missione all'estero nel 2007 e quattro anni dopo la diagnosi di una malattia autoimmune: da quel momento la vita del giovane militare trentino è cambiata. L'uomo, oggi quarantenne, ha dovuto congedarsi perché non più idoneo a servire lo Stato, e cercare un altro impiego che fosse compatibile con il suo stato di salute. Non ha diritto ad una pensione, secondo il ministero della Difesa, in quanto non ci sarebbe alcuna dimostrazione che la patologia sia insorta a seguito del servizio in aree contaminate. Ma ora tutto potrebbe cambiare, in meglio.

Nei giorni scorsi la Suprema Corte si è espressa in materia, analizzando il caso di un militare campano, morto a soli 27 anni, che si era ammalato dopo essere stato in missione in zone operative belliche. «Con una storica sentenza, la Cassazione ha affermato che per i militari ammalatisi sia di malattie in genere che di infermità tumorali dopo essere stati esposti in missione in teatro operativi bellici, luoghi di stoccaggio munizionamento, poligoni di tiro, vale il principio della presunzione di spettanza dei benefici come Vittime del Dovere» spiega l'avvocato Andrea Bava, patrocinatore della causa nonché difensore dell'ex militare trentino.

In altre parole, non si può pretendere dalle vittime la prova del nesso causale tra esposizione ad agenti nocivi e infermità contratte. La spiegazione è tecnica. «La Cassazione ha chiarito che nella particolare materia assistenziale in tema - popolarmente riferibile all'uranio impoverito ma applicabile a una casistica molto ampia - la normativa speciale contenuta nel Nuovo Codice dell'Ordinamento Militare evita di dover dare la prova del nesso causale, essendo invece l'Amministrazione a potersi esimere dal riconoscere lo status e i conseguenti benefici dando la prova della riconducibilità della malattia a cause estranee al servizio» evidenzia l'avvocato Bava.

Il militare trentino, che si è visto negare dall'Inps e dal ministero della Difesa la pensione privilegiata ordinaria chiesta a seguito delle patologie contratte, non ha ancora perso la sua battaglia. Alla luce della pronuncia della Cassazione si aprono nuove strade. Il suo ricorso è stato intanto accolto dalla Corte dei Conti Sezione giurisdizionale per il Trentino: il giudice ha disposto una consulenza medico legale affidata al ministero della Salute per esaminare la documentazione amministrativa e sanitaria già a disposizione ed eventuale altra documentazione ritenuta necessaria per accertare sia le patologie di cui soffre l'ex militare, sia se queste possano essere causate dai vaccini a cui si era sottoposto prima della missione, sia se la malattia derivi dalla permanenza in un determinato ambiente.

Nel periodo di servizio all'estero il quarantenne era stato esposto a fattori nocivi ambientali, in particolare a contaminazione a livello di nanoparticelle di metalli pesanti, anche radioattive, assorbite per contatto. Per questo motivo l'ex militare sostiene sussistere la causa di servizio. Nel Kosovo, dove aveva prestato servizio, così come in Bosnia Erzegovina, in Somalia, Afghanistan e in parte nella seconda guerra del Golfo, vennero utilizzate munizioni ad uranio impoverito, metallo che può avere effetti devastanti sulla salute delle persone oltre che sull'ambiente. La contaminazione potrebbe essere avvenuta anche attraverso mezzi militari impolverati.

L'ex militare trentino attende che gli Ermellini si esprimano anche sulla causa presentata davanti al giudice di Trento, e poi con esito negativo in Appello, in merito ai benefici da vittima del dovere. «Noi insistiamo: dato che la Cassazione per un caso identico sostiene che non si debba provare nesso causale, continuiamo la nostra battaglia e cercheremo di vincere per lui e per tutti coloro che si trovano nella medesima situazione» chiude l'avvocato Bava.

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