Tribunale / Il caso

Urla e minacce contro la figlia e il genero per motivi economici: niente più fucile

Nonostante i 65 anni di regole rispettate in merito al porto d’armi per amore della caccia, il Tar di Trento ha deciso di revocarne il possesso dopo l’ennesimo episodio, denotante l’assenza di equilibrio e serenità nei rapporti familiari degli interessati

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TRENTO. Le liti fra padre e figlia avvenivano frequentemente, quasi sempre per motivi economici. Non ci sono state solo le urla: ad aggravare la situazione sono partite pure le minacce, da parte del genitore verso la figlia e il genero.

Al padre, pensionato, è stato tolto il porto d'armi per caccia con il divieto di detenere armi, munizioni ed esplosivi di qualsiasi tipo e categoria. Non è bastata la sua accorata difesa, l'aver dichiarato che in tutta la sua vita ha sempre seguito la legge e che all'interno dell'associazione venatoria è conosciuto come una persona rispettosa: il Tar di Trento ha respinto il ricorso contro la revoca del porto del fucile.

Erano stati i carabinieri a provvedere al ritiro cautelare delle armi regolarmente denunciate, e questo era avvenuto il giorno stesso in cui la figlia aveva presentato querela per le minacce ricevute. Si trattava dell'ultimo atto, come è stato evidenziato dai carabinieri, di una situazione di conflittualità familiare per motivi economici, legati al patrimonio, al possesso di beni immobili, come testimoniano le precedenti querele incrociate fra padre, figlia e il compagno di lei.

Nelle memorie difensive il pensionato ha ricordato di aver denunciato la figlia per calunnia in relazione alle minacce da lei lamentate, e ciò come prova di una situazione che non è stata chiarita (ci sarebbe un'istanza di archiviazione per la querela). Ha inoltre sottolineato che non sarebbero state valorizzate alcune circostanze come la stima provata nei suoi confronti dal mondo venatorio e l'impegno sociale profuso per la medesima realtà.

La sua esistenza, si legge nelle memorie difensive, testimonia come «nel corso di ben 65 anni, il signor (omissis) abbia sempre avuto a sua disposizione armi di vario genere, che però non ha mai utilizzato al di fuori delle finalità e dei modi riconosciuti e previsti dal nostro ordinamento». Avendo sempre considerato la caccia come «attività nobile», la revoca del porto del fucile sarebbe per lui «motivo di sofferenza e disagio, sentendosi tradito da quel sistema di leggi che per tutta la vita ha sempre rispettato e ha esso stesso tutelato partecipando in via attiva all'interno della comunità e delle istituzioni venatorie».

Questa la difesa, ma il Tar di Trento evidenzia che nell'istruttoria era emerso «un quadro di forte attrito» con «assenza di serenità e di equilibrio» fra i soggetti coinvolti. «La situazione critica - rilevano i giudici amministrativi - neppure è stata smentita dallo stesso signor (omissis), il quale, nell'intento di chiarire le ragioni di tali contrasti famigliari, negli stessi atti da lui depositati in giudizio eloquentemente ne conferma l'esistenza e la persistente sua preoccupazione al riguardo».

Nella sentenza viene evidenziato che il provvedimento di revoca incide su un'attività voluttuaria come la caccia e non su un'attività lavorativa, dunque sono preminenti le esigenze di sicurezza della collettività. Tuttavia, qualora la situazione di conflittualità venisse meno (come proverebbe la remissione di alcune querele), l'uomo potrebbe presentare una nuova richiesta per il rinnovo del porto di fucile: l'esito favorevole dell'istanza «non sarebbe precluso in astratto» ove si accerti «l'avvenuto recupero dell'affidabilità nell'uso delle armi».

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