Sanità / Il fenomeno

Fuga da Apss, l’amarezza di un infermiere e di una dottoressa: «Ecco perché ce ne siamo andati a Bolzano»

Stipendi più alti, maggiori benefit e incentivi per la formazione: “Il nostro sistema poteva - anzi doveva - rimanere un fiore all'occhiello. In Alto Adige ci sono anche condizioni di lavoro migliori” 

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di Patrizia Todesco

TRENTO. «Perché me ne vado dall'Azienda sanitaria dopo tanti anni di lavoro? Perché a Bolzano mi pagano di più, mi offrono maggiori benefit e incentivano la formazione che qui da noi, negli ultimi anni, hanno tagliato di netto». A parlare è un infermiere che chiede di rimanere anonimo (ma di cui noi abbiamo dati e riferimenti) che sta aspettando che a giorni a Bolzano formalizzino la sua posizione.

«A quel punto chiederò prima un anno di aspettativa e poi la mobilità», racconta. Lui come altri, dunque, non figurerà nell'elenco dei dimissionari ma di fatto, a breve, non lavorerà più in reparto. «La differenza di stipendio è elevata. Attualmente prendo sui 1.800 euro con 20 anni di anzianità, turni, notti, libera professione. Andrò a prenderne di base 2.400. Lì poi frequentare un corso per il patentino B2 che in parte mi rimborseranno e a quel punto il mio stipendio salirà di altri 300 euro. Mi offrono poi la possibilità di effettuare libera professione e quindi posso arrivare tranquillamente a 3 mila euro». Ma ad attirare questo professionista, a cui è stato offerto anche un alloggio a condizioni agevolate, sono soprattutto gli orari.

«Ho chiesto di lavorare su turni di 12 ore e la mia domanda è stata accolta. Quindi lavorerò 3 giorni e 4 rimarrò a casa. Questo mi consentirà di limitare i viaggi verso Bolzano, ma soprattutto di avere anche più tempo per la mia famiglia. Quello che poi non capiscono i vertici è che un professionista non può rimanere solo con 20 pazienti. Per questo c'è un malcontento generale. Per questo le persone se ne vanno».

Un disagio confermato anche da una dottoressa che ha lasciato l'Azienda già da alcuni anni. «Con il Covid - dice - la situazione già critica è precipitata, ma i segnali del peggioramento c'erano già prima. Quando sono arrivata in Trentino, 16 anni fa, era un'oasi felice. I professionisti sapevano che a Trento si lavorava bene e facevano domande. Oggi non è più così».

Ma cosa chiede un professionista all'Azienda per cui lavora? «Semplice - dice la dottoressa - di non essere schiavizzato. Non possono pensare di fare sempre tutto a isorisorse. Io ho lavorato sempre nei pronto soccorsi e non è pensabile che se un medico fa un buon lavoro con un tot numero di pazienti lo possa fare bene allo stesso modo con il doppio». Quindi i carichi di lavoro erano elevati? «Direi spropositati tanto che ogni mese dovevo lavorare 168 ore ma alla fine arrivavo a farne 210, 220 anche 230».

C'è poi la questione economica. «Quando me ne sono andata prendevo 85 mila euro lordi all'anno. Con il mio trasferimento sono subito passata a 110. In questo periodo sento che in Trentino tanti si stanno lamentando e tanti se ne stanno anche andando. Ci sono servizi che vanno remunerati e quello del pronto soccorso è uno di questi. Ogni giorno viviamo uno Tsunami con tante diagnosi da fare, poco tempo, alte responsabilità. Questo vale ovunque, a Bolzano come a Trento. Ma lì c'è anche il problema di alcuni dirigenti, non tutti, che scambiano l'essere autorevoli con l'essere autoritari. Un peccato perché la sanità trentina, con tutti i soldi che ha a disposizione, poteva - anzi doveva - rimanere un fiore all'occhiello».

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