Cultura / Il lutto

Oggi al cimitero cittadino l'abbraccio a Piero Cavagna, un talento dalle intuizioni geniali

Alle 16 i funerali del noto fotografo scomparso domenica in un incidente in montagna sulle pendici del monte Gazza. La comunità resta orfana di un grande protagonista, per anni all'Adige, ideatore di innumerevoli iniziative e di mostre rimaste nella memoria collettiva

LA TRAGEDIA Una caduta fatale lungo un sentiero in valle dei Laghi
IL TALENTO Era un vero vulcano di idee sempre originali
LA STORIA Alcuni degli "scatti" di Piero Cavagna per le cronache dell'Adige

di Bruno Zorzi

TRENTO. Ogni ricordo, diceva Kierkegaard, è una pugnalata nella schiena. E la pugnalata è arrivata ora, dolorosa, inaspettata. Come è logico, com’è inevitabile. Piero Cavagna è morto come nessuno di chi lo ha conosciuto si sarebbe aspettato: caduto da un sentiero senza un grido, in silenzio. Me lo immagino stupito che la vita possa sfuggirti così, stupidamente; che il pensiero (tante le idee che affollavano la sua mente fervida) si possa spegnere così. Vittima della montagna che aveva scoperto d’autunno e nell’autunno della vita dopo averla, non dico detestata, ma perlomeno ignorata.

Ora Piero è un ricordo e una pugnalata. Più di una volta mi ha detto «se vago prima mi no scriverme dreo monae». Fosse facile. Geniale, introverso, per tanti anni - in questo fedele al suo mestiere di fotografo - più portato all’intuizione che all’analisi, negli ultimi anni, che sono stati difficili, ha sviluppato una capacità di guardare alle cose con una profondità sorprendente. Pochi sanno che la sua raccolta di libri fotografici è stata la più vasta e completa d’Italia. Migliaia di volumi, raccolti e catalogati con la pazienza del monaco certosino e una passione religiosa. Libri che conosceva uno a uno e di cui parlava illuminandosi.

Uomo che ha stemperato il suo istinto di artista nella costanza dello studioso. Uomo, va ricordato, che ha portato la sua cultura nelle stanze di una grande istituzione culturale come la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma. La Roma della sua gioventù; la Roma che continuava ad amare perché come lui: intelligente e disordinata; bella e spesso accarezzata da una luce malinconica. Negli ultimi tempi era più pacato, più tollerante anche se dava una lettura pasoliniana (poeta che amava) della società. Ogni tanto si lasciava andare alla nostalgia di un mondo che non era mai esistito ma che lui si immaginava felice come gli album di figurine dei calciatori degli anno ’70 che collezionava, con l’entusiasmo del bambino, quindi dell’artista.

Appunto il bambino: quel bambino che gli suggeriva le sue idee geniali e che poi lo sgambettava nelle seccature della vita quotidiana. Purtroppo (sbagliando) non credeva più nella fotografia. Si sentiva un uomo più portato a seminare che a raccogliere. Per questo si stava dedicando alle mostre ed era felice quando lo chiamavano nelle scuole a parlare d’immagine, della sua importanza soprattutto educativa.

Piero ha affrontato così l’autunno della vita. Come l’ottobre che se l’è portato via era sereno, la sua luce pacata. Pochi mesi fa aveva toccato il confine che ci separa dal mistero. Colpito da una grave malattia, l’ha affrontata con grande dignità. Mai un lamento: visibilmente smagrito e pallido, a chi gli chiedeva come va? Rispondeva con un “meravigliosamente”, un po’ guascone. Il pugnale del ricordo tocca nervi profondi perché si avvicina a questo maledetto sabato.

Quindici giorni fa siamo andati a camminare lungo un sentiero della Valle dei Laghi che passa per le frazioni, dove si scoprono angoli di storia, si sentono i profumi forti e buoni di quel che rimane della vita di Paese.

Arrivati a Ciago una signora ci ha invitati a visitare la chiesa, consegnandoci il “santino” di un parroco che ha fatto tanto, negli anni della “fam” per la sua gente. Piero ha percorso con i suoi occhi da fotografo la chiesa, ascoltando il racconto della signora. Uno sguardo pieno di luce che mi ha colpito e che non gli avevo mai visto in tanti anni. Uscendo mi ha detto: “Penso che abbiamo perso tanto dimenticando il senso religioso”.

A Vezzano, io lui e il nostro comune amico Gabriele Buselli, ci siamo seduti su una panchina a mangiare un panino con lo speck comprato alla Coop. Una di quelle felicità semplici che mi hanno fatto dire: bella la vita! Piero ha sfoderato un sorriso calmo e negli occhi gli ho rivisto la stessa luce della chiesa.

Lo sguardo di chi ha compreso la vita e sa accettare la sua apparente crudeltà.

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