Montagna / I controlli

Reperti della Grande Guerra e tracce archeologiche: i carabinieri sorvolano le cime trentine e invitano i "recuperanti" a rispettare le norme

In corso l'operazione del Nucleo per la tutela del patrimonio culturale cui collabora anche la Soprintendenza provinciale. Al centro delle verifiche una vasta area tra la Cima Trafoi, il Cevedale, il Vioz, il Crozzon di Lares e il Corno di Cavento. Si tratta di una zona di interesse anche per l'archeologia glaciale, per la salvaguardia di manufatti e resti umani in alta quota

TRENTO. I carabinieri impegnati nella tutela del patrimonio culturale si occupano anche di proteggere i reperti della Grande Guerra diu cui sono ancora disseminate molte montagne in regione e dintorni.

I militari del Nucleo per la tutela del patrimonio culturale (Tpc), che ha sede a Udine, sono impegnati in una vasta operazione, insieme al terzo Raggruppamento aeromobili di Bolzano, all’Arma territoriale e all’Ufficio beni archeologici della Soprintendenza per i beni culturali della Provincia autonoma di Trento.

"In una vasta area teatro di sanguinosi scontri combattuti, nel corso della Prima Guerra Mondiale in alta quota tra la Cima Trafoi (3553 m), il Cevedale (3378 m), il Vioz (3644 m), la Punta S. Matteo (3692 m), Crozzon di Lares (3354 m) e Corno di Cavento (3402 m), si è svolto un servizio di perlustrazione aerea mirato alla prevenzione e alla repressione di reati commessi ai danni del patrimonio culturale afferente la Prima guerra mondiale e di reperti archeologici in area montana, effettuato a bordo di un elicottero AB 412", si legge in una nota stampa diffusa oggi, 3 settembre.

"Un’area vasta - prosegue il comunicato - dove italiani ed austro-ungarici combatterono furiosamente, trasformando queste splendide montagne in scenari di guerra dove vennero costruite strade, gallerie e ponti, con mascheramenti per nascondere i movimenti di truppe e rifornimenti. Per ripararsi, i soldati dei due eserciti scavarono ricoveri nel ghiaccio sull’Adamello e sulla Marmolada, dove venne costruita la “Città di ghiaccio”, comprendente 8 chilometri di gallerie, ricoveri e depositi. Furono impiegati treni e camion, teleferiche e decauville.

Nelle retrovie si realizzarono magazzini, depositi, baracche, ricoveri e alloggiamenti per le truppe, cucine e ospedali da campo. L’area di operazioni venne sconvolta anche da un punto di vista paesaggistico dai frequentissimi bombardamenti le cui tracce sono facilmente riscontrabili anche oggi, a distanza di più di un secolo. Ma si trattò anche di guerra dell’uomo contro la natura: si stima che le valanghe, nell’inverno 1916-17 uccisero non meno di 10.000 uomini.

Si tratta di un’area di interesse anche per la cosiddetta “archeologia glaciale”, specialità che mira alla salvaguardia di manufatti e resti antropici in alta quota (sopra i 3.000 mt) e che studia la relazione tra la variabilità del clima e l'intensità dell'uso umano dei paesaggi alpini.

In questo contesto si inseriscono, ormai da tempo, i cosiddetti “recuperanti”, appassionati di vestigia della Grande Guerra, che si armano di strumenti, come i metal detector, per rinvenire nel terreno oggetti afferenti a quelle particolari vicende storiche oltreché a beni di natura più prettamente archeologica.

Bisogna però fare attenzione perché, nello specifico settore, esiste una legislazione dedicata che, a partire dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio che recepisce la normativa nazionale di settore (L. n° 78 del 7 marzo 2001, “Tutela del patrimonio storico della prima guerra mondiale”), passando attraverso la Legge provinciale 17 febbraio 2003, n. 1, stabilisce regole precise per approcciarsi a questa affascinante attività che dev’essere innanzitutto svolta al di fuori di “aree archeologiche” e nei siti individuati quali “cimiteri di guerra” dove è assolutamente vietata.

La raccolta e la ricerca di beni mobili di questa natura è consentita, purché si tratti di reperti e cimeli individuabili a vista o affioranti dal suolo (la legge vieta esplicitamente il distacco e l'appropriazione d'iscrizioni e cippi della Grande Guerra).

Inoltre, chiunque rinvenga o possieda reperti mobili o cimeli relativi al fronte terrestre della Prima guerra mondiale “di notevole valore storico o documentario” deve ottemperare all'obbligo di comunicazione, entro sessanta giorni dal ritrovamento, al Comune del luogo della raccolta, indicandone la natura, la quantità e, ove nota, la provenienza, potendosi configurare, in caso contrario, il reato previsto dall’art. 518-bis (furto di beni culturali) che sanziona anche la condotta di chi si impossessa di beni culturali appartenenti allo Stato, in quanto rinvenuti nel sottosuolo.

Di fondamentale importanza la correttezza di comportamento da parte di coloro che ricercano questo tipo di materiale, perché la mancata comunicazione del rinvenimento alle autorità preposte, che deve essere effettuato in maniera tempestiva, determina la nefasta conseguenza di perdere informazioni utili a ricostruire le vicende storiche di quel tragico periodo della storia nazionale che rappresenterebbe un’ulteriore ferita alla memoria dei tanti caduti, nel caso in questione, del fronte trentino.

Lo scavo è assolutamente vietato in quanto rientrante nel divieto espresso dall’art. 175 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio che proibisce – in assenza di concessione - l’effettuazione di opere per il ritrovamento di beni culturali.

Le previsioni appena citate non derogano alle responsabilità in materia di detenzione di materiale bellico o esplosivo, spesso rinvenuto attraverso un’attività clandestina di metal-detecting, condotta che configura specifiche fattispecie penali e che risulta pericolosissima stante la perfetta efficienza degli ordigni, che costituiscono un pericolo per chi li maneggia, spesso con l’intenzione di estrarne la carica esplosiva per poi rivendere l’involucro in qualche mercatino di settore piuttosto che sul web.

Anche la pietas ed il doveroso e deferente rispetto che si deve tributare ai resti umani dei combattenti dovrebbe muovere i recuperanti a segnalare questo particolare tipo di rinvenimento alle preposte Autorità, come nel caso dell'alpino Rodolfo Beretta, i cui resti sono riaffiorati nell'estate 2017 ai piedi del Corno di Cavento nel Gruppo dell'Adamello e segnalati alla Soprintendenza Provinciale da un alpinista che li aveva notati nel corso di un’escursione.

Durante il sorvolo, particolare attenzione è stata posta all’area dove recentemente - a seguito di indagini archeologiche derivate da segnalazioni documentate - sono stati recuperati dodici corpi scheletrizzati rinvenuti in una fossa comune sopra il passo del Tonale da parte dell’Ufficio beni archeologici della Soprintendenza per i beni culturali della Provincia autonoma di Trento, in accordo con il Commissariato generale per le Onoranze ai Caduti del Ministero della Difesa, che ha la competenza esclusiva del recupero di resti umani appartenenti a soldati di entrambi gli schieramenti.

La descritta attività di controllo si è conclusa senza che venissero rilevate particolari criticità, se non quelle già note riguardanti le evidenti tracce che la sconsiderata attività di ricerca, danneggiamento e furto lasciano come nel caso della baracca del Monte Cevedale, come si vede dalle immagini scattate dai Carabinieri operanti.

Il monitoraggio congiunto in quota proseguirà fino a che la bella stagione lo consentirà nel comune intento di prevenire e reprimere i reati commessi ai danni del patrimonio culturale. In quest’ottica si invitano gli appassionati della montagna a segnalare tempestivamente ai Carabinieri qualsiasi attività sospetta, possibilmente attraverso il NUE 112 o contattando la più vicina Stazione Carabinieri che provvederà, in collaborazione con i colleghi del Nucleo TPC di Udine, ad effettuare gli accertamenti del caso".

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