La sentenza / Il caso

Nullo il licenziamento in gravidanza: la società deve reintegrare la lavoratrice versandole un’indennità

Il datore di lavoro contestava “gravi e intollerabili condotte lesive del rapporto fiduciario”. Ma i rilievi erano modesti, la futura mamma non poteva essere cacciata

di Elena Piva

TRENTO. Il Tribunale di Trento ha condannato una società del capoluogo per il licenziamento (illegittimo) di una dipendente incinta. Secondo il giudice non poteva allontanare la dipendente: la normativa in materia - in particolare l'articolo 54 del decreto legislativo 151 del 2001 - stabilisce infatti che «le lavoratrici non possono essere licenziate dall'inizio del periodo di gravidanza fino al termine del periodo di interdizione dal lavoro, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino».

Con due note, inviate il 17 marzo e 16 aprile 2021, alla dipendente e futura mamma è stato intimato il licenziamento per «giustificato motivo soggettivo» (per avvalorare l'ipotesi di deroga al divieto di licenziamento). La società ha contestato «una serie, grave e intollerabile, di condotte irrimediabilmente lesive del rapporto fiduciario».

Facciamo un passo indietro. Il 3 dicembre 2020 azienda e dipendente hanno sottoscritto l'accordo di lavoro agile prevedendo lo svolgimento della prestazione lavorativa a domicilio. La società ha contestato un'assenza a suo avviso ingiustificata a fine gennaio 2021 e la violazione dell'accordo con cui dichiarava di provvedere con la massima diligenza all'auto aziendale, dato che a inizio marzo 2021 la donna parcheggiava in divieto di sosta, nello spazio riservato agli invalidi. Per supportare la propria tesi, la società ha citato anche una multa del maggio 2020 e un uso non corretto della carta di credito aziendale nel luglio 2019.

In sentenza, però, il giudice Giorgio Flaim scrive: «È incontestato e provato che in data 27 marzo 2021 la ricorrente ha dato alla luce la figlia, la data dell'intimazione del licenziamento (17 marzo 2021) la ricorrente si trovava in stato di gravidanza. La società ha intimato alla ricorrente, con la successiva lettera del 16 aprile 2021, un licenziamento per giustificato motivo soggettivo. Eppure, l'articolo 54 del decreto legislativo 151/2001 dispone che le lavoratrici non possono essere licenziate dall'inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro, dato che il divieto di licenziamento opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza».

Nel caso della donna, il divieto è iniziato nove mesi prima del 27 marzo 2021 e terminato il 27 marzo 2022 (primo compleanno della bimba). «La deroga al divieto di licenziamento della lavoratrice madre, secondo la Suprema Corte, si attua quando ricorre una sua "colpa grave" - ha evidenziato il giudice - è la stessa società ad ammettere che gli addebiti posti a fondamento del recesso non integrano una giusta causa connotata dalla colpa grave della lavoratrice. Il licenziamento è stato un fattore di grave turbamento per la ricorrente, che si è prospettata la certezza del venir meno del proprio reddito personale da lavoro, trovandosi a reperire altre fonti e a riorganizzare l'esistenza della famiglia».


La sentenza ha accertato che il licenziamento e nullo perché intimato nel periodo di divieto e in assenza di ipotesi previste in deroga. Il datore di lavoro è stato condannato a reintegrare la lavoratrice e al risarcimento di un'indennità commisurata all'ultima retribuzione di riferimento, dal giorno del licenziamento sino a quello della reintegrazione, e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali. L'articolo 37 della Costituzione impone di garantire le misure di necessarie per rimuovere le gravi discriminazioni che colpiscono la donna in maternità. Se la normativa n° 151/2001 non tutelasse le donne in stato di gravidanza, il datore di lavoro potrebbe liberarsi, licenziando la lavoratrice, degli oneri posti a suo carico e la dipendente potrebbe essere indotta, dal timore di essere cacciata, alla rinuncia dei propri diritti.

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