Femminicidio / L’analisi

Uomini che uccidono le donne, la psicologa: «ci vorranno ancora generazioni, serve un cambio culturale»

La dottoressa Roberta Bommassar: «Ok le panchine rosse, servono a parlarne, ma bisognerà partire dall’educazione, dai bambini. L’uomo che uccide non è il più forte, anzi...»

di Chiara Zomer

TRENTO. Ad ogni femminicidio, ad ogni dramma ci facciamo le medesime domande. E la sensazione è che sia del tutto inutile. Non è così. Solo che per cambiare una società complessa serve tempo. Quanto? Una generazione, secondo la psicologa Roberta Bommassar. Che invita a non demordere: le iniziative di sensibilizzazione non sono inutili. Solo, hanno bisogno di tempo.

Dottoressa, solo un anno fa eravamo qui a parlare di un femminicidio sul nostro territorio, ed ora di nuovo. La stupisce?

«No non mi stupisce, i dati che noi abbiamo dall'Istat sono purtroppo chiari e parlano di una riduzione degli omicidi e in generale della violenza, che tende ad abbassarsi. E questo è un trend che interessa gli ultimi anni, anche se non abbiamo questa percezione, perché i cittadini si sentono comunque a rischio. Ma questo calo non vale per la violenza sulle donne. Questi episodi sono purtroppo stabili».

Viene da chiedersi il perché. E viene da chiedersi se non siano del tutto inutili le iniziative di sensibilizzazione, le panchine rosse, i convegni.

«Certo che le panchine rosse aiutano, è importante comunque parlarne. Perché il problema è culturale. Rimane un fatto: il femminicidio è una manifestazione esasperata, usare la violenza significa che alcuni principi riguardo al rispetto della donna non sono ancora un patrimonio di tutti. Rimane uno zoccolo duro che è difficile da scalfire, anche se mediamente la sensibilità nei confronti delle donne è migliorata rispetto al passato, anche grazie al dibattito che si sta sviluppando, vale la pena ribadire certi concetti. Anzi, non dobbiamo assolutamente abbassare la guarda e pensare che non serva. Certi concetti devono attraversare tutta la popolazione».

Allora ribadiamoli.

«Chi usa la violenza pensa sia una manifestazione di forza, ma è il contrario. E' un segno di debolezza. Gli uomini devono diventare più forti, per accettare la maggior autonomia delle donne».

Ma cosa va insegnato? A superare la necessità di possesso?

«Il nocciolo di tutto è il principio dell'autodeterminazione del corpo della donna e del rispetto da parte degli uomini dei confini corporei. Un concetto che rischia di cadere, tutte le volte che si instaurano rapporti di potere. Lo vediamo ad esempio nelle guerre. L'abbiamo sentito anche recentemente. In una dinamica di potere e di violenza, la violenza sul corpo delle donne diventa paradigmatica, perché dentro c'è la volontà di dimostrare di essere potente andando ad attaccare il corpo non solo femminile, ma anche materno. La guerra è un esempio all'estremo, ma il concetto che rimane ancora lì, non scalfito. È quello. Perché la violenza sulle donne ha poco a che fare con la violenza sessuale, è questione di potere e controllo sull'altro».

Spesso ci si trova a commentare tragedie come i femminicidi. Ma quando, come in questo caso, si tratta di un omicidio suicidio, l'analisi cambia?

«Non so se è diverso il senso. Di sicuro è diversa la posizione di chi lo commette. Perché nel caso dell'omicidio suicidio, c'è una disperazione da parte di chi lo commette, legata all'impossibilità di pensarsi senza quella persona. Quindi l'autonomia, che molte donne vogliono, quando dicono: "Mi separo da te, perché non voglio più vivere con te". Viene vissuto da questa persona come una situazione intollerabile di violenza sentita su di sé. C'è il moto di disperazione e di rabbia di chi pensa: "Tu non puoi vivere lontana da me, ma io non posso vivere lontana da te. Nel caso di solo omicidio, si vuol mostrare solo l'aspetto del controllo e il senso di proprietà del corpo».

In questa vicenda c'è anche l'aspetto economico. Loro due lavoravano assieme, nell'azienda di lei. Può aver esercitato un ruolo questa dinamica al momento della separazione?

«Partiamo dal presupposto che non conoscendo nulla della vicenda, si possono fare solo delle ipotesi, nel rispetto della vita di queste persone, altrimenti diventiamo violenti. Certo la storia passata ci dice che è più in sintonia con la società l'ipotesi che la donna dipenda economicamente dall'uomo. Per alcuni aspetti le dinamiche in cui si diceva prima, con le difficoltà di accettare scelte d'autonomia relazionali, se ulteriormente intrecciate anche con l'aspetto economico, sono più complessi. La condivisione non solo affettiva, ma anche lavorativa, può aumentare il senso di inaccettabilità della separazione».

Davanti a queste vicende noi, intesi come società, cosa siamo chiamati a fare?

«Lavorarci su, iniziando dall'educazione dei bambini. Deve passare questo principio basilare: il rispetto dell'autonomia dell'Altro, con l'A maiuscola e in modo particolare nei confronti delle donne, per le quali c'è ancora l'onda lunga dello stereotipo che le donne dipendono dagli uomini, hanno meno diritto ad essere autonome, pensiamo alle difficoltà delle donne lavoratrici. Bisogna cominciare dai bambini».

Sperando che serva a qualcosa.

«Serve. Penso che i giovani siano più rispettosi, cominciano a confrontarsi con una figura femminile più autonoma, credo debba passare una generazione. Intanto continuiamo a lavorare». 

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