Il Covid e quei pazienti in lacrime: parla la dottoressa Ianes, specializzata il 6 marzo e in reparto il giorno dopo

di Patrizia Todesco

TRENTO - Il 6 aprile 2020, in piena pandemia Covid, si è specializzata in anestesia e rianimazione. Il giorno dopo, il 7, ha firmato un contratto a tempo indeterminato con l'Azienda sanitaria. Da quel giorno Adele Ianes, 36 anni, trentina, diplomata al liceo Prati di Trento e una laurea in medicina a Verona, mamma di due bambini di 2 e 5 anni, insieme a tanti suoi colleghi non ha mai smesso di lavorare in prima linea, "nell'ultimo reparto", quello dove le persone ammalate di Covid vengono intubate e aiutate a respirare grazie a speciali macchine.

Un lavoro di per sé faticoso, quello di chi lavora in rianimazione, ma che a distanza di mesi dall'avvio dell'epidemia lo è ancora di più soprattutto perché la seconda ondata dura ormai da mesi e la pressione è ancora alta. I numeri non accennano a diminuire e a peggiorare la situazione ora ci sono anche le varianti. La stanchezza, fisica e psicologica, si fa sentire su chi daun anno non conosce tregua. Ma chi opera in prima linea non può mollare. Come cercano di non mollare i pazienti che sono ricoverati e che ogni giorno lottano tra la vita e la morte per non darla vinta al maledetto Covid.

Dunque, specializzata il 6 aprile e assunta il 7 a tempo indeterminato. Un bel salto in piena pandemia.In realtà ero già a Trento da diversi mesi per il periodo di specializzazione. Però ero in sala operatoria, come specializzanda. Poi sono stata ricollocata in rianimazione perché le sale operatorie avevano smesso di funzionare e c'era bisogno di personale in reparto.

Come mai la scelta di specializzarsi in anestesia e rianimazione?

Lavorando in Pronto soccorso all'estero aveva capito che la mia strada era la gestione del paziente critico e l'urgenza.

Come è stato affrontare il Covid e la pandemia in prima linea appena finita la specializzazione?

Il punto non è stato come affrontare il Covid da neo specialista ma in generale come affrontare il Covid. La malattia non la conosceva nessuno e si imparava man mano che si andava avanti. Il vero salto è stato nel momento in cui c'è stato il passaggio dal non Covid al Covid.

Un lavoro che ha messo a dura prova sia fisica che psicologica tutto il personale.

Lavorare con questa patologia è fisicamente estenuante e devastante dal punto di vista emotivo. Entrambi gli aspetti erano già presenti ma in questo momento sono amplificati. Come sappiamo tutti, il lavoro è fisicamente faticoso non solo per i turni e il carico di lavoro ma soprattutto per la necessità di indossare dispositivi che fanno caldo e che ti isolano dal mondo esterno. In alta intensità le manovre che si fanno sui malati sono pesanti anche perché devi sollevare la persona, metterla a pancia in giù e con i dispositivi tutto è più difficile. E poi dal punto di vista emotivo, lavorare con il Covid è devastante. I malati sono tantissimi, alcune situazioni non finiscono bene, altri pazienti migliorano ma lentamente. E poi sono soli in reparto. Hanno solo noi. È una sofferenza grandissima, difficile da testimoniare. La solitudine in un momento di malattia critica è forse peggio della malattia stessa. Solitamente si crea un rapporto di cura con la famiglia ma in queste condizioni tutto è più difficile. Le comunicazioni sono spesso filtrate da telefoni e tablet e dunque tutto è più complicato.

Pazienti che per voi, considerata la situazione di solitudine, diventano padri, madri, fratelli, nonni. Immagino che sia difficile poi dimenticarli.

Me ne ricordo tantissimi, ricordo tante videochiamate quando tenevo il tablet prima che le persone venissero intubate e dopo il risveglio da coma farmacologico. Telefonate strazianti. Era difficile non farsi coinvolgere e mi sono ritrovata spesso a reggere il tablet con le lacrime agli occhi. Ha rivisto qualche paziente dopo le dimissioni?Qualcuno è tornato a salutare, ed è stata una gioia per tutti. Ma è un'emozione anche semplicemente dimetterli dal reperto quando vanno in uno a minore intensità di cura. C'è stata una prima ondata, ora una seconda più lunga.

Il lavoro per voi è cambiato?

Io ho sentito tanta differenza tra la prima e la seconda ondata. Nella prima l'adrenalina era alta e si è stati catapultati in una situazione dove c'era uno sforzo collettivo a volercela fare. Sentivamo il tifo per noi, ricordo che io ero l'unica del condominio dove abito ad andare a lavorare. Era come una missione. In quella fase non si sentiva paura o fatica. Forse anche perché è durata meno ed è stata più intensa. Come in tutte le situazione di grande emergenza c'era l'adrenalina del fare. La seconda ondata è diversa. Sapevamo che sarebbe arrivata e soprattutto sapevamo cosa ci aspettava: la fatica e i problemi. E poi ora anche il sostegno è ridotto. La situazione è avvertita come "normale", l'entusiasmo è venuto un po' meno e c'è più stanchezza e diffidenza.

Il farmaco che guarisce dal Covid ancora non c'è, ma le cure sono migliorate.

Abbiamo capito quello che funziona e quello che funziona meno. Una terapia specifica non c'è ma abbiamo imparato come tarare meglio il supporto respiratorio e l'uso dei farmaci. Però questa seconda ondata è più lunga, c'è stanchezza e si avverte più paura.Però sono arrivati i vaccini. Questo non aiuta?Certo, io ho fatto anche la seconda dose, ma per avere una buona protezione su tutta la popolazione bisogna vaccinare tante persone e la strada è ancora lunga.

C'è un ricordo particolare di questo anno di lavoro?

Sono tanti. Però spesso mi torna alla mente una paziente piuttosto giovane che aveva un bambino piccolo a casa. Ricordo le toccanti videochiamate prima che venisse sedata e poi quella al risveglio in cui ha rivisto marito o figlio dopo alcune settimane di coma farmacologico.

Ma le persone hanno ricordi quando si risvegliano?

I ricordi relativi alla terapia intensiva sono molti confusi per via dei farmaci. Spesso non ricordano dettagli, sono come "annebbiati".

Voi sanitari, diceva, vivete la prima e la seconda ondata in maniera differente. E i pazienti?

I pazienti hanno sempre paura. Vedo il terrore nei loro occhi e far fronte a questo è molto difficile. Quando arriva il momento in cui dici loro che li devi addormentare per la ventilazione meccanica tutti fanno la stessa domanda: «E poi mi risveglio?». E a questa domanda nessuno è in grado di rispondere con certezza.

Vede una luce in fondo a questo tunnel che stiamo attraversando?

Io non lo so, non voglio pensarci troppo. In questo momento non riesco a pensare ancora a cosa succederà tra un anno o tra due. In questo periodo cerco di mettere d'accordo il lavoro con il resto della vita. Sono felice del vaccino, sarò felice quando lo faranno i miei genitori, e prendo giorno per giorno quello che la vita di buon mi offre e vado avanti.

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