Storia dell'uomo senza volto vide i killer della mafia: nascosto 30 anni a Trento

di Sergio Damiani

Da trent’anni Piero Nava vive in fuga. Il 21 settembre 1990, l’uomo che allora era un facoltoso agente di commercio, vide e riconobbe due dei quattro killer che, a pochi chilometri da Agrigento, uccisero in un agguato il giudice Rosario Livatino. Il magistrato non ebbe scampo, braccato dai sicari di Cosa Nostra che lo inseguirono nella campagna per dare al giudice il colpo di grazia. Piero Nava passava di lì, per caso, a bordo della sua Lancia Thema. Vide e non ebbe esitazioni: telefonò al 112 per denunciare l’omicidio e in seguito al processo riconobbe i killer di mafia contribuendo alla loro condanna all’ergastolo. Quel giorno Piero Nava, con la compagna e due figli allora piccoli, divenne un fantasma, un uomo braccato. «D’ora in avanti, se vuole vivere, la sua vita non le appartiene più. Penseremo noi a proteggerla» disse a Nava il giudice Giovanni Falcone che solo due anni dopo morirà nella strage di Capaci.
Quella di Nava è stata ed è ancora una vita da “Signor Nessuno”. Nel 1991 il testimone che la mafia voleva eliminare approdò in gran segreto a Trento dove rimase con la famiglia per circa 2 anni: sotto copertura, protetto, costretto ad un sostanziale isolamento, sofferente, ma sempre convinto di aver fatto la cosa giusta: «Non rinnego nulla delle scelte fatte, io credo nello Stato...» continua a ripetere. La “tappa” trentina viene raccontata nel libro «Io sono nessuno» (Rizzoli), in cui Nava ripercorre la sua vita da testimone di giustizia, con la valigia sempre in mano e l’abitudine, mai superata, di guardarsi alle spalle.
«A Trento - racconta il giornalista Paolo Valsecchi, che con i colleghi Lorenzo Bonini, Stefano Scaccabarozzi ha curato il libro - Nava arriva circa un anno dopo il delitto. ha riconosciuto due dei quattro killer, ed è diventato un obiettivo di Cosa Nostra. A Trento si trova bene, vorrebbe costruire una nuova vita, tornare alla normalità. Ma non è possibile. All’epoca ancora non c’era una legge per la protezione dei testimoni di giustizia che permettesse loro di cambiare rapidamente identità. Nava non può quindi lavorare. Con la compagna e i figli è costretto ad una vita nell’ombra. Addirittura non può avere un medico di base, per ragioni di sicurezza viene visitato da un medico legale di fiducia. Stringe amicizia soprattutto con i poliziotti della scorta».
Dopo due anni, per questioni di sicurezza, la famiglia Nava lascia Trento iniziando un vagabondare che negli anni successivi la porterà in giro per l’Italia e poi all’estero. Una vita senza radici, una fuga perenne cambiando, grazie alle nuove norme in materia di testimoni di mafia, varie volte l’identità.
A distanza di 30 anni dall’omicidio del giudice Livatino, Piero Nava è ancora un “Signor Nessuno”, un uomo il cui passato deve essere sempre nascosto, anche al più caro degli amici.
«Non so dove viva oggi Nava - racconta Valsecchi - di certo, nonostante siano trascorsi 30 anni, la sua vita non è tornata alla normalità. Abbiamo impiegato circa un anno per concordare un primo incontro. Ci convocò in un aeroporto dove iniziò a raccontarci la sua lunga storia di impegno civile, condita anche da momenti di sofferenza e depressione». Eppure, nonostante tutto, Piero Nava se tornasse indietro testimonierebbe ancora contro i killer. «Non mi sento un eroe, non mi sento una mosca bianca. Non sono né l’ uno né l’ altro. - disse al giornalista Giuseppe D’Avanzo nel 1992, dunque in anni in cui era nascosto a Trento - Sono un cittadino che crede nello Stato, né più né meno come ci credeva Rosario Livatino. E lo Stato non è un’ entità astratta. Lo Stato siamo noi. Siamo noi che facciamo lo Stato. Giorno per giorno. Con i nostri comportamenti, la nostra responsabilità, le nostre scelte. Con la nostra dignità».

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