Dagli studi alla prima linea Covid «I miei pazienti nel cuore»

di Elena Piva

Laureatasi tra le mura di casa il 31 marzo scorso, la giovane infermiera Giorgia Miori ha affrontato i primi tre mesi della sua vita lavorativa decisamente a muso duro. La mole delle responsabilità che la pandemia ha portato con sé non l’ha scoraggiata, anzi le ha dato la forza di rispondere con fermezza alla chiamata dell’Azienda sanitaria, giunta dopo sole 24 ore dalla discussione della tesi.

La 23enne di Riva del Garda, infatti, non ha fatto in tempo a salutare la sede trentina dell’Università di Verona: subito è stata indirizzata nel reparto di Pneumologia dell’ospedale di Arco. Oggi, a distanza di quattro mesi dall’inizio dell’emergenza, può dirsi maturata professionalmente e consapevole di quanto anche le sue mani abbiano fatto la differenza.

Come ha vissuto il passaggio da neolaureata a infermiera in prima linea?

«I primi giorni sono stati difficili, poi la tensione ha lasciato spazio al bisogno di recare supporto e conforto alle persone colpite da Covid-19. La paura di un’esperienza così ricca di responsabilità non è mancata, soprattutto perché durante il terzo anno di studi non ho mai gestito un intero reparto, bensì pochi pazienti. Sono stata molto fortunata, perché affiancata da una ragazza che già conoscevo, di un anno più grande. Dopo otto turni in sua compagnia, ho cominciato da sola».

Quanti pazienti ha seguito giornalmente?

«Il reparto arcense è stato suddiviso in due équipe da 10 pazienti medio-stabili l’una e in un gruppo riservato ai sub-intensivi, trattati con ventilazione non invasiva. Durante il primo mese sono sempre stata affiancata da un’altra collega. Mi sono trovata in un’ambiente bellissimo, lavorando ogni giorno con la consapevolezza di potermi affidare a chiunque».

In che modo è cambiata la sua personale routine?

«La mia vita è stata rivoluzionata. Mio papà ha subito un’operazione al cuore tre anni fa, quindi è stato considerato un paziente a rischio. La nostra vicina di casa ci ha aiutati, ho vissuto in un appartamento di sua proprietà in aprile e maggio. Ho sempre indossato la mascherina e mantenuto le distanze. Spesso abbiamo cenato in terrazza, mai accaduto in precedenza. I miei genitori seduti a un tavolo, io a un altro. Ogni utensile da me toccato è stato messo all’istante in lavastoviglie. Il mio reparto però si è organizzato in maniera ottimale: l’operatore si bardava prima di entrare, una volta aperte le porte era considerato sporco per tutta la durata del turno. Una volta svestito, doveva gettare nell’immondizia le protezioni ad eccezione degli occhiali, farsi poi una doccia e cambiarsi d’abito. Su cento dipendenti, solo un infetto».

Quali momenti resteranno indelebili?

«Sono parecchi gli episodi che porterò con me. Purtroppo, il mio primo turno è cominciato con un decesso. La prima settimana di lavoro ho visto cinque pazienti morire. Ho vissuto situazioni bruttissime, è capitato di avere ricoverati moglie e marito. Per la prima volta ho visto una persona morire, spegnersi, senza poter fare qualcosa se non alleviare la sofferenza con i farmaci e la vicinanza. Resteranno nel mio cuore però anche i tanti pazienti visti ogni giorno per due mesi, i loro miglioramenti e le loro guarigioni. Queste sono le più grandi soddisfazioni. Ho conosciuto il valore dei rapporti umani grazie alle videochiamate con i parenti, una gioia immensa poterli vedere felici».

Come descriverebbe questa esperienza?

«Essermi laureata in un momento così critico mi ha permesso di aiutare nel concreto. Pur nelle difficoltà, il clima è stato eccezionale, positivo e collaborativo. Mi sono sentita accolta e utile, nel vero senso della parola».

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