La Corte dei Conti contro l'Ateneo: borse di studio ai dipendenti (anche per i figli che vanno all'asilo)

La firma su un contratto di secondo livello, che apriva la strada all’erogazione “a pioggia” di borse di studio in favore del personale tecnico e amministrativo e dei collaboratori esperti linguistici dell’Ateneo trentino, ha messo nei guai due dipendenti dell’Università. La Procura regionale della Corte dei conti ha citato in giudizio per “colpa grave” Alberto Molinari, 63 anni di Mezzocorona, e Paolo Mezzena, 68 anni, residente a Trento, per un supposto danno erariale di 607.214 euro. La somma si riferisce ad erogazioni di welfare riconosciute ai dipendenti dell’Università di Trento (esclusi però docenti e dirigenti) sulla base di un contratto di secondo livello ritenuto dalla Procura in parte illegittimo perché prevedeva la concessione di sussidi al personale senza alcuna valutazione delle condizioni di reddito del nucleo familiare. Così persino un bimbo di neppure tre anni poteva ottenere una borsa di studio da 350 euro annui. Si tratta di accuse che - come spieghiamo a parte - le difese respingono in toto.
L’indagine è partita da una denuncia anonima, poi sviluppata dagli accertamenti condotti dalla Squadra mobile. Il procedimento trae origine dal contratto nazionale del comparto Università, sottoscritto nel gennaio del 2005, che riconosceva agli Atenei la possibilità di adottare in sede decentrata iniziative di welfare in favore dei propri dipendenti. A Trento questa previsione contrattuale si tradusse nel gennaio 2007 in un accordo sottoscritto tra Università e parti sindacali che introduceva criteri e modalità di erogazione di borse di studio per la frequenza scolastica (fino ad un massimo di 350 euro all’anno) e per la partecipazione a soggiorni di studio all’estero (fino a 450 euro). Per l’Ateneo tutto ciò si è tradotto in un esborso dal 2007 al 2017 pari a 1,6 milioni di euro; ma per effetto della prescrizione il danno contestato nell’atto di citazione è “solo” di 607mila euro per il periodo 2014-2017. Secondo l’accusa, l’accordo integrativo sottoscritto da Molinari e Mezzena nel 2007 - come componenti della delegazione universitaria, delegato dal rettore il primo e dal direttore generale il secondo - era «palesemente illegittimo» e comportava per l’Ateneo esborsi per «contribuzioni a pioggia» senza alcun tipo di controlli. Tutto ciò secondo la Procura si poneva «in palese contrasto con i principi di contrattazione nazionale vigenti in materia, senza tenere in conto le dovute esigenze di protezione delle risorse economiche universitarie».
In particolare, la Procura lamenta la mancata valutazione del reddito complessivo dei coniugi anche a fronte di famiglie grandemente benestanti; l’attribuzione del benefico anche a studenti fuori corso; famiglie che chiedevano speculari benefici anche alla Provincia (di cui poi non si dava atto nella dichiarazione dei redditi Irpef).
La difesa ha replicato che le misure di welfare adottate a Trento erano simili a quelle concesse da altri Atenei italiani. Il pm contabile però replica che, salvo il caso di Brescia, in molte grandi università come Bologna, Torino e Genova hanno condizionato l’attribuzione dei sussidi a limiti reddituali debitamente documentati così da raggiungere i meno abbienti in ottemperanza a principi sanciti anche dall’articolo 34 della Costituzione. Si tratta di accuse, è bene sottolinearlo, ancora tutte da verificare nella fase di giudizio che si apre con l’atto di citazione firmato dal procuratore Marcovalerio Pozzato.
Intanto l’amministrazione universitaria è corsa ai ripari e nel 2018 ha corretto quella che secondo l’accusa era una «marchiana illegittimità»: dalle borse di studio per i figli dei dipendenti dell’Università sono stati esclusi i bimbi delle scuole materne.

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