Applausi per Francesca Zanoni giovane avvocata trentina del team di «Mediterranea»

di Luigi Oss Papot

L’evento per celebrare i 20 anni di Banca Etica del Trentino nei giorni scorsi al castello di Pergine, aveva per titolo «In prima linea per restare umani»: una serata pensata per ribadire i principi fondanti della banca, grazie alle testimonianze di tre ospiti d’onore, quali Raffaele Crocco, giornalista e direttore di Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo, Francesca Zanoni, trentina dell’Ong Mediterranea Saving Humans a bordo della nave Mare Jonio, e Giovanni Putoto, medico veneto attivo per Medici con l’Africa Cuamm.

Particolarmente applaudito il racconto di Francesca Zanoni, giovane avvocata trentina facente parte del team legale di Mediterranea, che ha passato diverso tempo a bordo di Mare Jonio ed anche della SeaWatch 3.

«Mediterranea nasce da persone - ha spiegato - che ad un certo punto si sono stufate di essere spettatori inermi di una strage continua in mare, per fare qualcosa di concreto in mezzo a quella miriadi di parole false e tweet. Abbiamo comprato, anche grazie a Banca Etica, una nave, la Mare Jonio, per navigare proprio lì dove vorrebbero che non ci fossero testimoni e usarla per fare un ponte verso la terra».

Equipaggi di terra e di mare che sono indispensabili l’un l’altro, soprattutto per chi è sulla nave: «L’equipaggio di mare - ha detto Zanoni - ha bisogno di quello di terra per non sentirsi solo. Essere in mare e sapere che a terra ci sono persone che tifano per te è fondamentale, mentre fai i conti con una vita di bordo non semplice, con stanchezza, con la frustrazione di stare giornate a guardare un orizzonte che è sempre lo stesso, perché sei in frontiera ma davanti a te non c’è nulla, è una frontiera liquida ed invisibile. Sai che c’è vita, perché vedi i resti dei gommoni affondati, vedi i salvagente abbandonati, senti le comunicazioni alla radio di chi vorrebbe solo rispedirti in Libia, che non è quel posto sicuro che vogliono far credere. Percepisci la vita, la cerchi ma non la trovi».

Ma la vita in mare non è solo questo: ci sono anche sentimenti e situazioni diametralmente opposte, una felicità che Francesca definisce difficile da descrivere a parole: «Trenta persone noi, cento persone loro, noi cercavamo vita e loro guardavano morte. Insieme a ritrovarsi sulla stessa barca a chiudere lo sportellone che voleva dire ce l’abbiamo fatta. Lì non sei tu il migrante ed io l’italiana. Avercela fatta tutti è una fortissima sensazione, unica nel suo genere. Pensate quanto sconvolgerebbe chi professa odio percepire solo una minima parte di questa sensazione».
Affrontare queste situazioni tuttavia comporta difficoltà materiali oggettive, dai risvolti psicologici: «Pensate alla difficoltà - prosegue il racconto Zanoni - di dover tradurre a chi hai salvato cosa voglia dire non poter attraversare una linea solo sulla carta, perché così ha deciso un foglio del ministero dell’interno, attendendo giorni e giorni senza perdere i nervi, vedendo comunque la costa. Come spieghi poi, una volta attraccati, e dopo aver fatto sbarcare i bambini e chi portava segni evidenti di torture, a chi non è donna e non è torturato abbastanza, di non essere interessante, che non c’è la via d’accesso immediata a terra?».

In tutto questo però, Francesca ha saputo ricavare un grande insegnamento: «In quelle circostanze ho percepito un’umanità che da nessun’altra parte ho mai provato. Ho avuto il privilegio di vedere il senso più vero di comunità, dimostrato da persone provenienti da Paesi diversi. Lottare per la loro libertà è lottare per la nostra, che non va mai data per scontata».

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