Invece che guardie, dateci gli orinatori

di Franco De Battaglia

Più che le guardie, mettiamo i vespasiani in centro a Trento. Tito Flavio Vespasiano, imperatore romano vissuto al tempo in cui Gesù Cristo predicava in Galilea, non inventò gli orinatoi, ma da lui presero il nome («Vespasiani») perché aveva imposto una tassa sugli stessi. Svetonio racconta che, rimproverato dal figlio per questo balzello, Vespasiano abbia messo sotto il naso di Tito un sesterzio osservando con arguzia: «Pecunia non olet», il denaro non puzza. Così come non emanerebbero cattivo odore i simboli del cristianesimo (crocifisso e presepe) se non fossero imposti dalla politica di bassa lega che li intende brandire come simboli della «nossa tradizion». Qualcuno ha aggiunto «culturale», ma è stato un lapsus calami.

L’Adige pubblica la fotografia di un maleducato il quale non ha trovato di meglio, né poteva trovarlo in verità visto che i vespasiani sono introvabili, che orinare sui marmi rossi della basilica di S. Maria Maggiore a Trento.

Quel fiotto di pipì, anziché spegnere l’urgenza dell’incontinente «immigrato extracomunitario» (ca va sans dire), ha acceso un rogo che si è propagato fino ai piani alti del Palazzo. Con il neogovernatore Fugatti pronto a sfoderare la spada di Alberto da Giussano e i quattrini dell’Autonomia, per inondare di ronde notturne la piazza e le vie adiacenti l’oltraggiata basilica. Già che c’era, ha «ordinato» il ritorno di Gesù Cristo sulle pareti delle aule scolastiche per ribadire «la nossa cultura» e ha «suggerito» l’allestimento del presepe negli uffici pubblici.
All’imbarazzata marcia indietro di chi inizialmente aveva visto con favore la riconquistata decenza dei luoghi sacri tramite sceriffi armati, la titubante amministrazione comunale del sindaco Andreatta ha timidamente fatto osservare: che l’ordine pubblico era di propria competenza; che le guardie pagate dalla Provincia non andavano bene; che la città militarizzata ancora meno, che «insomma si vedrà». I preti del dissenso curiale e i «liberi pensatori» hanno manifestato da par loro il disagio per le chiese con le ronde, per i Cristi collocati obbligatoriamente nelle scuole di uno stato «laico» e, contestualmente, per i poveri Cristi dell’immigrazione buttati fuori dalle strutture di accoglienza per mostrare il volto umano del «cambiamento».
Quanto ai presepi, forse gli attuali governanti dimenticano che quelle statuine perpetuano il racconto di una famiglia di migranti, extracomunitari dalla pelle scura, finiti all’addiaccio perché nelle strutture deputate all’accoglienza non c’era più posto per loro. Fanno parte della nostra tradizione? Una volta, forse, quando eravamo accoglienti perché avevamo pure noi fratelli, nonni o zii con la valigia di cartone, emigrati oltre oceano o nelle regioni d’Europa. Quando anche noi eravamo respinti o guardati come appestati e sulle porte dei locali pubblici della civilissima Svizzera comparivano cartelli del tenore «È vietato l’ingresso ai cani e agli Italiani». Tanto da far dire allo scrittore svizzero Max Frisch (1965): «Chiedevamo braccia, sono arrivate persone».

Ma era tanto tempo fa. Tanto che ne abbiamo perso perfino la memoria.

Oggi, nei presepi della «nostra tradizione» le uniche statue che vi si possono collocare, e che ben ci rappresentano, sono quelle del bue e dell’asino.
Quanto a Gesù bambino, che si vorrebbe crocifisso in tutte le scuole, e già la scuola è un Calvario, se n’è andato da un pezzo. Non c’è traccia di certo in quel «vitello d’oro» che è diventata Piazza Fiera, fra le bancarelle dei mercatini e dei mercanti del Natale da vin brulé e da vigilantes «volontari» del razzismo un tanto al chilo. A proposito: dopo le biascicate scuse della signora Verones (Azienda Turismo) e dell’assessore comunale ai mercatini, il vigilante zelante fa sapere che non è razzista, che non intendeva offendere alcuno. Ma se l’ingegnere importunato con la richiesta ai suoi amici se erano importunati, anziché essere un «negro» fosse stato un «bianco», lo zelante vigilante si sarebbe avvicinato al gruppo intento a sorseggiare un vin brulé?

E se il mingente nottambulo non fosse stato colto da un fotografo nell’atto dell’improvvida minzione, si sarebbero stanziati 50 mila euro per pagare vigilanti attorno a Santa Maria e nel rione della Portela che avrebbero bisogno di controlli serrati da almeno dieci anni?

Perché se proprio vogliamo dirla tutta, un altro orinatoio sono le pareti esterne della chiesa di Santa Chiara dove numerosi avventori, complici il buio e le siepi, non trovano di meglio che scaricare il vin brulé in eccedenza degustato lì vicino.

Di eccesso in eccesso, quel che manca alla fine non è solo la buona educazione ma proprio il «cesso». Quei «luoghi di pubblica decenza», com’erano chiamati un tempo, che con 50 centesimi altre città d’Europa mettono a disposizione dei turisti e che a Trento sono inesistenti.

C’è un solo modo perché la diafana amministrazione del sindaco Andreatta possa passare alla storia: almeno in tempi di ondate oceaniche (centomila visitatori domenica a Trento, titolano i giornali) la città sia provvista di «Toi toi».

Bruno Kessler, l’artefice del Piano urbanistico provinciale, il padre di Sociologia e della Libera Università degli studi di Trento, meriterebbe un posto nel famedio cittadino non già per queste intuizioni ma per la più prosaica «legge sui cessi».
Quella legge provinciale, la n. 9, che nel 1962 finanziò la riconversione del «cesso a caduta» con più igienici servizi ricavati all’interno dell’abitazione. Migliorarono l’igiene personale, evitarono le broncopolmoniti invernali e allungarono l’aspettativa media di vita.

Altri tempi, quando eravamo «povera gente».

comments powered by Disqus