Stava, 35 anni di ricordi e dolore

Stava, 35 anni di ricordi e dolore

di Alberto Faustini

Un tempo disabitato. In una geografia sconosciuta. Un tempo fatto di fango. Di una strana argilla. Di un grigio irreale. Come l’odore nell’aria. Come l’assenza di vita che arrivava dopo il rumore dell’allegria e il sapore delle vacanze e prima dell’urlo di sirene e sirene, del frastuono degli elicotteri. Le vite - 268, scopriremo poi - il bosco, le case, gli alberghi: tutto portato via dalla violenza dell’acqua. Dall’impeto assassino di quella gigantesca massa piena di fluorite e di superficialità umana. Stava è sparita in pochi attimi: come un infinito castello di sabbia sbriciolato dalla prima onda del mare.

Negli occhi ho ancora silenzi e rumori, declinati al plurale: perché tutti diversi, nuovi, assurdi, persino inconcepibili. Ed è tutto in bianco e nero. Perché per trovare un po’ di colore, quel 19 luglio del 1985 che per tutti noi è uno spartiacque fra un prima e un dopo, mi sono arrampicato nella parte viva del bosco, quella risparmiata dallo schiaffo del gigante del terrore.

A pochi passi da quell’immensa spianata incolore, c’era il verde, c’erano alberi e case. E quelle matite colorate strappate alle dita o allo zaino di qualche bimbo, sparse fra le radici. Unico segno di vita. Penso che ogni trentino abbia la sua Stava nel cuore. La Stava di prima, che s’attraversava velocemente per andare a sciare a Pampeago (o verso gli Oclini e Lavazè), senza sapere dell’esistenza di una miniera, di bacini di decantazione, di una bomba appesa da anni e anni al filo dell’incoscienza. La Stava della tragedia: una ferita profonda che a molti ha portato via vite, affetti, storie, ricordi e ad altri ha portato via l’innocenza, perché quel 19 luglio è morta un’idea di Trentino e ne è nata un’altra, davvero attenta all’ambiente, allo sviluppo sostenibile; quella della protezione civile e della solidarietà; quella della voglia di ricostruire. Quella della sete di giustizia. Quella del «mai più».

Poi c’è la Stava di oggi: quel prato verde e quell’ordine che sono come uno sconfinato tappeto che ha celato tutto, ma non la memoria, non il dolore. Anche se è molto alto il rischio che insieme alle persone - 35 anni dopo - muoia lentamente anche il ricordo. Nelle due belle pagine che abbiamo pubblicato ieri, Luca Zorzi, che aveva un anno nel 1985 e che scelse di fare il geologo «perché ho Stava nel sangue», ha parlato al nostro Andrea Tomasi di un mix di avidità, di mancanza di competenza e di etica. A lui, che quel giorno perse sette parenti, bastano queste tre parole per spiegare ciò che in un certo senso nemmeno i tribunali - ai di là delle sentenze - hanno saputo spiegare: come l’umanità possa chiudere gli occhi di fronte all’idea di arricchirsi a qualunque prezzo. La lezione di Stava resta. Ma il prezzo è altissimo. E in Italia e nel mondo ci sono troppe altre Stava, troppe bombe pronte ad esplodere dietro a un enorme drappo fatto di tanti occhi chiusi.

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