Lampi di speranza nella piazza vuota

Lampi di speranza nella piazza vuota

di Alberto Faustini

Ci siamo ritrovati impauriti e smarriti.

Come molti di voi, ho negli occhi il volto del Papa mentre pronuncia queste parole. Mentre chiede a Dio, in quella piazza San Pietro quasi spettrale, piegata dall’assenza e dalla pioggia in una bellezza persino lacerante, «di non lasciarci in balia della tempesta». Mentre, con l’incedere di chi ha sulle spalle il mondo intero - un mondo di credenti e di non credenti - grida in faccia a Dio: «Svegliati Signore! Salvaci!».
Un gesto di una forza inedita. Che non ha infatti precedenti. Con un messaggio che va ben al di là dei tanti simboli che sono rimbalzati di casa in casa in mondovisione: «Ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme».

Di fronte alla vulnerabilità di questo tempo instabile, di fronte ai bollettini che ogni giorno ci dicono che abbiamo perduto un parente, un amico, un vicino di casa - elenchi che un po’ detestiamo e un po’ attendiamo, nel desiderio di scoprire una frenata, l’inizio della fine - solo l’unico vero leader di quest’inquieto pianeta poteva ricordarci che il nemico invisibile si combatte e si sconfigge unicamente se si sa costruire quotidiana comunità. Solo se si cammina e si lotta tutti insieme in un’unica direzione. Con la capacità di rinunciare a qualcosa - persino a un frammento di una libertà fatta di piccole cose che ora ci sembrano d’incommensurabile grandezza - per ottenere qualcosa di più grande: il ritorno alla vita. A quell’amata normalità di cui spesso non sentivamo più nemmeno il sapore.

Quando Papa Francesco parla di speranza, concetto insieme carico di prospettive e di fragilità, trova un termine laico e universale per rammendare i frammenti di un mondo che non è fatto solo di preghiere, ma anche di imprecazioni; che non è fatto solo di ottimismo, ma anche di frustrazione, di delusione. Perché accanto a tutte queste croci invisibili alle quali ognuno di noi deve saper dare un nome, c’è anche il dolore di chi resta. Di chi lotta per resistere e insieme per vincere una nuova solitudine. Una solitudine che - al di là della nostalgia del contatto fisico - trova il suo doloroso apice nell’impossibilità di abbracciare chi muore. E va trovato un modo per ridare dignità all’addio, per riempire il vuoto e il silenzio - pur senza infrangere leggi giuste e necessarie - con il canto degli affetti.

Papa Francesco cerca di squarciare le fitte tenebre sulle nostre città con un coltello fatto di parole. Alla politica, locale, nazionale ed europea (ammesso che l’Europa ci sia ancora), spetta il compito di dare nuove forme all’idea di speranza. Con risposte rapide e precise sul fronte sanitario. Ma anche con immediati piani di rilancio economico. La comunità, per stare insieme, ha bisogno di sicurezza. Di risposte veloci. Non di promesse.

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