La crisi esalta ogni debolezza

La crisi esalta ogni debolezza

di Alberto Faustini

Per dirla con il grande sociologo Zygmunt Bauman, siamo sospesi tra il “non più” e il “non ancora”: il nostro è il tempo indecifrabile dell’interregno. Jorge Luis Borges sarebbe stato ancor più sferzante: «So di un paese vertiginoso dove la lotteria è parte principale della realtà: il numero dei sorteggi è infinito e nessuna decisione è finale».

Ezio Mauro - cercando di definire ciò che sta accadendo in Italia, ma un po’ in ogni brandello del pianeta - ha parlato in più di un’occasione di autonomia della crisi: «Si muove indifferente al processo democratico, potremmo dire sotto la sua linea d’ombra, sfruttando e ingigantendo le sue debolezze». La crisi non come idea, ma come forza appunto autonoma. Forza che ci rende vulnerabili: prima a livello individuale e poi collettivo. Creando nuove solitudini e un distacco sempre più preoccupante fra elettori (quelli che ancora provano a credere nel “sistema”) ed eletti. Prevale la sensazione di essere eterni spettatori. Governati da una sfiducia che s’appende di giorno in giorno a nuove promesse, per naufragare poi velocemente alla prima delusione, cercando approdo su un’altra zattera, su un altro territorio. Le ideologie, crollando, si sono portate via anche molti punti fermi, molti princìpi che la Chiesa - costretta a ricordarci l’importanza dei valori - ancora definisce «non negoziabili».

Se non si parte da lontano, non si capisce la crisi che stiamo vivendo. Una crisi che non riguarda certo solo il governo, ma che è una specie di mantello grigio calato sulle nostre giornate, sulle piccole e sulle grandi cose della vita. In un clima come questo, le strade sono sempre solo due: cavalcare la crisi o cercare una vita d’uscita. Il leader leghista che è tornato in una Pinzolo che definisce «sua», perché è il luogo della sua infanzia, dei suoi ricordi bambini, sguazza ad esempio nella crisi con maestria: Salvini evidenzia le contraddizioni, esalta i problemi, parla in modo diretto, con  chiarezza quasi disarmante, a un Paese che vede (cerca?) nell’uomo forte l’unica possibile risposta a problemi diversissimi fra loro.

Demonizzarlo ha poco senso, perché riesce comunque a parlare a un pezzo sempre più grande d’Italia. Va semmai capito: è infatti anche da quel pezzo d’Italia che la politica deve ripartire. Per ricostruire la trama del Paese, per ridare fiducia, ma anche ascolto, a chi si sente escluso, tradito, persino dimenticato. Impossibile cercare una via d’uscita pensando di poter ignorare lo stato d’animo di chi non crede più a nulla. Per questo è  sorprendente che chi dovrebbe cercare di mettere insieme un programma per il rilancio dell’Italia si inchiodi su punti fermi che altro non sono che continue mine gettate sul campo dell’unica intesa possibile, per quanto fragile. Eloquente che anche Conte inizi a non credere più nell’”impresa”.

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