L’alleluja di Susanna che non tornò a casa

L’alleluja di Susanna che non tornò a casa

di Paolo Ghezzi

Enrico Rufi ha provato a dire l’indicibile: la storia di una figlia diciannovenne che muore il 1° agosto 2016, rientrando dalla Giornata mondiale della gioventù di Cracovia (l’unica, tra un milione e mezzo, che non è tornata), uccisa da un batterio nordico, il CC18, vinta da una meningite fulminante, all’ospedale di Vienna.
«Muor giovane chi al cielo è caro»? Ma sarebbe un cielo ben sadico, quello che si riprende i ragazzi migliori, e per goderseli lassù ti pugnala quaggiù, infliggendo ai genitori, ai fratelli, agli amici che restano, il massimo del dolore umano.

Difficile dire l’indicibile, ma il papà di Susanna c’è riuscito. Forse perché quando fai il giornalista, si potrebbe dire quel che De André dice di Jones flautista: «ma poi se la gente sa, e la gente lo sa che sai suonare, suonare ti tocca, per tutta la vita, e ti piace lasciarti ascoltare».
E così Enrico Rufi, voce notturna di Radio Radicale, si è trovato nelle corde, dopo tante storie degli altri, la storia sua, di «mammaLeila», della sorella Margherita e di Susanna, e l’ha intitolata «L’alleluja di Susanna» (ed. San Paolo, 140 pagine), perché Susy stava imparando a suonare con la chitarra il celebre Hallelujah di Leonard Cohen, la cui «Suzanne» (tradotta da De André) è alla base della scelta di quel nome per la ragazza romana che sulla via della sua croce «sbiancò come un giglio», come il Gesù di De André. E giglio è il significato del nome ebraico Susanna.

Cresciuta in una famiglia non troppo incline alla «pratica cattolica», seppure i due genitori abbiano entrambi radici scout, Susanna - bel viso pulito, sguardo limpido - è diventata un’animatrice della sua parrocchia, seguace convinta del vangelo della misericordia riproposto da papa Francesco, una credente sempre più consapevole e decisa a percorrere la strada, oggi assai minoritaria, di una fede che si confronta con il mondo, senza presunzioni né timori. Una fede alla don Milani, che la faceva arrabbiare quando l’obbedienza non era più una virtù, come nel caso del parroco che aveva negato i funerali religiosi a Welby. Una passione etica condivisa con il papà Enrico, che un po’ per «colpa» di papa Francesco ma soprattutto per condividere il cammino delle figlie, si è trovato a fare il flautista titolare della messa parrocchiale a San Policarpo: così non meraviglia che «L’alleluja di Susanna» di un giornalista pannelliano abbia trovato un editore cattolico, San Paolo, e la presentazione del presidente dei vescovi italiani, Gualtiero Bassetti.

L’autore si toglie anche qualche spina sui brutti vizi della disinformazione: il Messaggero si è inventato la «rabbia» della mamma perché solo la sua Susanna non è tornata. Ma la rabbia proprio non ci appartiene, replica Rufi. Quando precipiti a capofitto in un dramma come questo, saltano molte categorie: pensare che si provi rabbia, o invidia per altri tre milioni di genitori che le loro Susanna, i loro Matteo, i loro Luca, le loro Alice li hanno riavuti, è una sciocchezza. C’è invece stupore, c’è silenzio, c’è fiato sospeso, c’è il guardare e non capire, c’è il capire e non guardare, c’è non respirare più e trovarsi sorpresi di continuare a respirare.

E c’è, paradossalmente ma autenticamente, gratitudine. Il pianto, per Susanna che non c’è più, non annulla la lode per la Susanna - positiva ma taciturna, serena ma seria, implicita, interiore - che hanno avuto come compagna, per un tratto breve, 19 anni, eppure misteriosamente compiuto.

Tanti viaggi, in Europa e in America e in Terra Santa (spesso con la «scusa» dei congressi internazionali di fisici a cui partecipava la mamma) hanno fatto i Rufi, quartetto affiatato di esploratori di bellezza, prima dell’ultimo viaggio di Susanna. «Viaggiarle, viaggiargli insieme ciecamente» è ciò che canta Cohen, di Suzanne donna del fiume e di Gesù salvatore degli annegati: «Sai, Susy, il fiume della canzone di Cohen è il San Lorenzo», in Canada, «quello dove tu e Meggy avete visto le balene su quel gommone dove avete preso tutti quegli spruzzi e stavate coi giubbotti di salvataggio. Ti ricordi, Susy...?».
Un libro che è una lettera ad un’amatissima destinataria con ignota destinazione, libro commovente, senza che mai ci ricatti con l’autocommiserazione. Enrico Rufi non si compatisce, ma «patisce con» senza sovraesporsi. Francesista e editore, usa le parole con misura e precisione.

Per le sue figlie aveva tradotto l’Ave Maria di Francis Jammes, che risuona così: «E per l’umiliazione inflitta all’innocente/ Per la fanciulla inerme che implora inutilmente/ Per la donna insultata e che non dice niente/ Sussurro Ave Maria». E ancora; «per l’asino e il cavallo sfiniti lavorando... per il bacio perduto, per la carezza resa/ e per il mendicante che trova una moneta, sussurro Ave Maria».
E proprio il «Dio-mendicante. Dio potente nell’impotenza» è il Dio in cui sperava e credeva Susanna, una ragazza di Roma che amava il Giuda soccorso dal Buon Pastore nella basilica di Vézelay, il bianco Natale con Elvis, Fonzie di Happy Days, «La vita è bella» di Benigni, il coraggio di Lutero e l’ironia di Guareschi, Gerusalemme e Santiago, la ginestra di Leopardi, le stelle sul Monte Baldo, i libri d’estate nella biblioteca di Brentonico, il lago di Cei, il colore arancione e la canzone friulana «Ai preàt la biele stele», Susanna «molto lenta a lavare i piatti... fulminea nel freddare le zanzare». Susanna «capelli raccolti e sandali ai piedi, una “mise” non conformista, più da novizia che da adolescente del terzo millennio».

«L’alleluja di Susanna» non dà risposte, un perché non c’è, per una ingiustizia così. Ci sono solo molti ricordi, molta nostalgia, molta intimità e una fiducia pacata: che Susanna viva dentro quell’amore in cui credeva, vicino al Dio che cercava e aspettava. La fisarmonica rossa di Castelfidardo, regalo del Natale dopo quell’agosto, era per tutt’e due, le inseparabili Susy-e-Meggy: la suonerà solo Margherita. Ma si capisce che il papà flautista è convinto che Susanna, sotto qualche cielo, sarà lì ad ascoltarla.

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