Kohlhaas, il corpo che sa raccontare

Kohlhaas, il corpo che sa raccontare

di Paolo Ghezzi

Il «Michael Kohlhaas» di Heinrich von Kleist, racconto ottocentesco su una vicenda tedesca del Cinquecento, è roba forte. Prende di petto, un bel po’ prima di Kafka, il problema della giustizia umana e di quella divina, l’amore la rabbia la vendetta il perdono.
Roba forte, per lettori attenti e inquieti, per cittadini capaci ancora di indignazione.

Il mercante di cavalli, borghese e buon padre di famiglia, chiede giustizia per i suoi due morelli purosangue scarnificati e offesi da un nobilastro capriccioso, e quando capisce che non l’avrà, che la politica e la magistratura proteggono i prepotenti, mette a ferro e fuoco la Sassonia e diventa il principe dei banditi, il pericolo pubblico numero 1: una trasformazione a cui dà il colpo decisivo la somma ingiustizia della morte della moglie, picchiata da una guardia dell’imperatore nel tentativo di inoltrare una supplica per il marito.

Kohlhaas il ribelle è diventato perfino, nel Sessantotto tedesco, con un film di Volker Schlöndorff, un antesignano della ribellione studentesca del Novecento.

Kohlhaas non sarebbe solo dunque un idealista rivoltoso (la vicenda storica è autentica, nei suoi tratti essenziali) che diventa involontariamente il leader di una guerra rustica dei contadini contro i re e i signori, ma anche l’eroe anarchico di una rabbia antisistema, travolgente e sconvolgente. Un campione della contestazione radicale e rivoluzionaria.

Troppo, certo, per un mercante che rivuole solo i suoi due cavalli neri presi in ostaggio da un conte sadico e arrogante, ma li esige forti belli lustri com’erano. Secondo giustizia, appunto.
Il tema, si capisce, va oltre il caso Kohlhaas e diventa il grande tema dell’uomo libero che si scontra, a un certo punto della sua vita, con le gabbie ferree del potere e dell’ingiustizia e scopre che la legge non è uguale per tutti.

Tema eterno, dalle tragedie greche in avanti: tema che evoca grandi furori e perentorie passioni. Kleist - nato nel 1777 e, dopo una vita breve e impetuosa, morto omicida-suicida con un’amica nel 1811 -  l’ha affrontato con il vigore del romanticismo e la lucidità dell’illuminismo.
Leggendo il suo racconto, non si riesce a non simpatizzare con l’eroe anche quando diventa violento e sterminatore, perché l’ingiustizia gratuita ci fa ribollire il sangue (anche se si tratta «solo» di due cavalli) e ci contagia con il fascino irresistibile della vendetta.

Così come non può non immedesimarsi in Kohlhaas chi ha assistito all’intenso monologo di Marco Baliani, riproposto nel silenzio appartato di Iron (paesino abbandonato per la peste, un secolo dopo la nostra storia) come prologo al piccolo festival «Montagne racconta», da domani a domenica, in Giudicarie.

Bastano due braccia, due mani, due piedi, oltre agli occhi e alla voce, per fare un attore. Aggiungete una sedia e un minipalco di assi di legno, ed ecco Baliani-Kohlhaas infuriarsi e infuriare, cavalcare e battagliare, raccontarci la sua lucida follia dopo averci fatto «vedere», battendosi il petto, com’era il cuore del mercante prima che la voglia di vendetta lo avvelenasse: ed era un cuore buono e giusto, come un recinto di bellissimi cavalli dai mantelli fumanti nella rugiada dell’alba, come un mondo perfetto, buono e giusto a misura del cuore.

Il corpo dell’attore - gli occhi le mani e i piedi - ci sa raccontare il pendio rovinoso della vita di Kohlhaas, il suo inevitabile destino di ribelle da consegnare alla forca, come tanti altri insubordinati a causa della giustizia, prima e dopo di lui.

E la voce di Baliani-Kohlhaas sembra rotolare, sul pendio della storia, anche sui prati di Iron, da dove un grido annunciava alla valle il computo aggiornato delle vittime della peste. Ineluttabile, come la vendetta che non rende giustizia ma la moltiplica.

E il corpo dell’attore si contorce e sussulta e soffre dentro Kohlhaas, mostrandoci la tragedia di un uomo che voleva essere la cura del mondo ma ne è diventato un’altra malattia.

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