Lamento sui ciclisti travolti dai motori

Lamento sui ciclisti travolti dai motori

di Paolo Ghezzi

I ciclisti sono essenziali, fragili e indifesi. Gomiti, ginocchia, faccia e braccia sono esposti all’aria e agli urti. Tra le gambe non hanno mostri d’acciaio, motori ruggenti. Hanno telai arrugginiti o lucenti, archeologici o tecnologici, pesanti come ferrivecchi o leggeri come piume ipermoderne ma comunque essenziali, nudi come scheletri. Un manubrio, due pedali, due freni, una canna, un sellino. Non c’è cabina che li protegga, non c’è abitacolo che li separi e li preservi dal mondo.

Nel mondo sono immersi, nell’aria navigano, come i nascituri nel liquido amniotico, ma senza una pancia di mamma che li difenda. I ciclisti sono il loro corpo pedalante e sudante. Non hanno corazza né scudo.

E così l’ecatombe annuale di ciclisti - l’ultimo è stato, su un incrocio di casa, il povero Michele Scarponi, appena sfrecciato in corsa sulle strade del Trentino - sembra un sacrificio umano inevitabile, necessario «prezzo» del progresso che, sulle strade, premia i più pesanti e i più veloci, a loro dando il potere di vita e di morte su coloro che incrociano sul loro motorizzato cammino.

Certo, se i cavalieri del motore non usassero il telefonino, se non fossero rombanti e distratti, se non corressero sempre da qualche parte e non fossero stressati e non fossero in ritardo… se la segnaletica stradale fosse più marcata e osservata, se le strade fossero più sicure, se le piste ciclabili fossero più diffuse, ci risparmieremmo qualche tragedia.

Ma, dobbiamo essere «ciclicamente» onesti: la condizione del pedalatore resta per definizione e per vocazione precaria, arrischiata, perigliosa. (Lo dovrebbero ricordare gli arroganti agonisti su due ruote - anche tra i ciclisti ci sono i prepotenti e i violenti - che in ciclabile ti sfiorano come proiettili umani e maledicono il pedalante della domenica o il camminatore ancor più inerme).

Chiunque pedala è o dovrebbe essere consapevole di questa debolezza intrinseca, e per quanto sia prudente e fosforescente, sa (ma non ci deve pensare, sennò addio allegria ciclica) che può essere in ogni momento speronato, agganciato, sbattuto a terra dalla brutalità di un mezzo più prepotente e da chi lo guida.
In questo senso, la bicicletta aiuta la consapevolezza umana del limite e favorisce la riflessione filosofica sulla fragilità dell’esistenza. Dunque, non è soltanto un civile contributo a un mondo meno inquinato dagli idrocarburi e meno frenetico nei suoi movimenti, non è solo un regalo che si fa alla propria salute ma - se intesa, ovviamente, come pratica non esasperatamente atletica - una disciplina che aiuta a riconciliare corpo e spirito, gamba e cervello, respirazione e anima.

«La rivoluzione - compagni - arriverà in bicicletta!. La salita ora è pesa. Verrà la discesa! Senza fretta - compagno - boicotta il motore. Senza fare rumore calpesta il potere. Occhio al ginocchio, è lo stinco che stendo. La rivoluzione sta già pedalando!» (Alessio Lega, Moto perpetuo, dal cd «Resistenza e amore»).

Sì, non solo perché i partigiani usavano le bici per sfuggire alle camionette nazifasciste - e il grande Gino Bartali pedalava come un matto su e giù per le colline toscane a portare i messaggi clandestini della resistenza - non solo per quello la bicicletta è resistente e anarchica e rivoluzionaria.

La bicicletta è un pensiero che non ha fretta.

«Bicicletta/ due ruote/ leggere/ due pensieri/ rotondi/ pieni di luce/ per capire la strada/ e sapere/ dove conduce./ Bicicletta/ due ruote/ sottili/ due idee/ rotonde/ piene di vento/ per pensare discese/ e sapere/ la gioia e lo spavento./ Bicicletta/ due ruote/ leggere/ due parole/ rotonde/ piene di festa/ per parlare col mondo/ e sapere/ quanto ne resta…» (Roberto Piumini).

L’arte della bicicletta comincia dalla testa e si trasmette ai polpacci. Non dovrebbe salire in sella chi ragiona con i piedi, chi spara pregiudizi, chi non lascia pedalare i pensieri fuori dalle vie maestre, dalle strade già segnate, dai conformismi cretini, sempre ben asfaltati.

La bicicletta è un’arte profuga e solitaria.

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