La primavera del male e un piccolo cronista

La primavera del male e un piccolo cronista

di Paolo Ghezzi

Con il 21 marzo sovraccarico di significati politicamente corretti (giornata della poesia, giornata contro le mafie, giornata per il sostegno alle persone con sindrome di Down) l’equinozio di primavera ci ha aperto la strada che porta verso il solstizio d’estate. Dall’acqua dei pesci siamo entrati nel fuoco dell’ariete: l’inverno appare vinto, nonostante la disoccupazione e la ‘ndrangheta e le tristezze. Siamo ancora vivi, i giorni si allungano, la luce spinge la notte più in là.
Il 21 marzo 1940 Dawid Rubinowicz («biondo, occhi azzurri, poteva passare per tedesco» racconterà la sua maestra a Enzo Biagi) aveva dodici anni e cominciò a scrivere (senza dare il benvenuto alla primavera) un diario dei tempi duri che gli stavano rotolando addosso.

Sì, perché a Dawid (in ebraico, l’amato da Dio) era capitato di essere un ebreo polacco, figlio del lattaio di Krajno, un villaggio vicino a Kielce, distretto di Radom, a metà strada tra Varsavia e Cracovia.
«Stamattina presto andavo per la strada del nostro villaggio, quando da lontano ho visto un manifesto sul muro dell’emporio. Sono andato subito a leggere... diceva che gli ebrei non devono più andare sui carri. (Sui treni, era proibito già da prima)».

Un bambino di campagna, che racconta le cose che vede. Non c’è l’esperienza già ricca di libri storie fede e dubbi di una Etty Hillesum; non c’è la grazia struggente della poetica Anne Frank rinchiusa nella soffitta di una bella casa borghese di Amsterdam.
Quello di Dawid è un diario piccolo: cinque smilzi quaderni di scuola. Nell’edizione Einaudi, appena una settantina di paginette, si legge in tre ore.

Ciò che colpisce è il tono asciutto del piccolo cronista di una realtà fatta di torti e angherie e proclami e minacce crescenti, di multe arbitrarie e perquisizioni feroci, di inflazione galoppante e di fame incombente, di furti «letali»: due oche, dieci chili di patate e un sacco di farina che fanno la differenza tra il soccombere e il sopravvivere.
Prende forma piano piano, inesorabilmente, senza retorica ma con tutto lo stupore infantile che lo contempla, l’orrore di un piano di sterminio fondato sull’odio per un intero popolo, di un genocidio in cui molti polacchi - spesso cattolicissimi - diventano i volonterosi carnefici-collaboratori dei nazisti tedeschi occupanti.
«...Ho saputo che sloggiano gli ebrei da diverse strade. Anche io mi sono rattristato molto». «Non ho potuto dormire tutta la notte, per dei pensieri strani che mi venivano in testa». E il primo settembre 1940:
«Oggi è il primo anniversario dello scoppio della guerra... quante sofferenze abbiamo già passato... Prima quasi nessuno era disoccupato, adesso c’è disoccupazione al 90%. Come noi: avevamo una latteria e ora siamo completamente disoccupati».
Poche pagine ma che fatica leggerle. Quasi non si riesce a sopportare il grido silenzioso di un bambino espropriato del futuro e consegnato alla paura.

Alla sua famiglia tolgono i colli di pelliccia, gli animali, il grano macinato, lo zucchero, la stalla, infine la casa: li affamano e li fanno spalare la neve per ore, senza pause e senza guanti. 11 gennaio 1942: «Ora in un inverno così rigido ci sloggeranno, e dove? Ora è venuto il nostro turno di soffrire duri tormenti. Il Signore Iddio sa per quanto tempo».

Basterebbe aver strappato la voglia di vivere a un solo Dawid, per condannare senza appello tutte le macchine dell’odio, ben oliate anche oggi per mietere vittime (Aleppo, Gaza, Mogadiscio, Pyongyang...). Un solo bambino, non sei milioni. Un solo bambino. Basterebbe.
Le esecuzioni sommarie, per la strada, nel bosco, si susseguono. Dawid le descrive come un giornalista di cronaca nera, ma poi commenta con empatia: «questa fine ha fatto l’infelice». Il suo papà cerca di tenersi in buona il sindaco, gli offre un po’ di vodka: «Il sindaco ha detto che bisogna fucilare tutti gli ebrei perché sono nemici. Ma se volessi scrivere anche una parte sola di quello che ha detto di noi, nemmeno ci riuscirei...». «Quanti nemici sono in agguato contro queste lepri indifese». «Siamo legati adesso come cani alla catena».
E dopo l’omicidio della figlia di un ex vicino: «Una ragazza che era un fiore, se ha potuto essere ammazzata così, allora ormai verrà la fine del mondo».

Quando attaccano un manifesto con caricature di ebrei che mettono topi nella carne macinata e acqua sporca nel latte, Dawid annota: «Mentre la guardia attaccava questo manifesto, già la gente si metteva a ridere; tanto ridevano che la testa mi scoppiava per l’infamia che gli ebrei subiscono oggigiorno. Voglia Dio che questa infamia finisca al più presto».

Dio non lo ascolta, le guardie gli portano via il papà («il dolore e la tristezza mi spezzano il cuore») ma il ragazzino di Krajno non perde la fede: «Siamo preparati a tutto a braccia aperte».
L’ultima pagina dei diari ritrovati, datata primo giugno 1942, gioisce per il papà temporaneamente rilasciato dopo un mese di lavori forzati 13 ore al giorno. Comincia con «Giornata di felicità», ma si interrompe con un altro delitto, due ebree uccise senza un perché, il carro che torna sporco di sangue. L’ultima parola è «Chi», la frase continuava probabilmente su un altro quaderno, disperso. A Treblinka, nel lager, in quel periodo i «carichi umani» passavano direttamente alle camere a gas, lo stesso giorno o il giorno dopo l’arrivo del trasporto: il 21 settembre, per gli sgomberati da Bodzentyn.

Della famiglia del lattaio Rubinowicz non si è saputo più nulla. Ma c’è da credere che Dawid, ragazzino con gli occhi aperti, piccolo cronista dell’orrore, abbia avuto il tempo di vedere, di capire. Di ricordare le sue poche primavere da bambino libero. Di avere, per l’ultima volta, una immensa, indicibile paura. La paura degli innocenti.

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