Lingua italiana a fine corsa

Lingua italiana a fine corsa

di Paolo Ghezzi

La carica dei seicento professori universitari (aiuto, gli studenti ventenni fanno errori da terza elementare!) per salvare la nostra lingua dall’ignoranza contagiosa ha ricaricato le batterie al partito degli italianofili, angosciato dal dilagare di un inglese mal masticato e di un italiano mal digerito.

L’italiano malato grave? Chissà. In realtà, nel mondo, lo studio della lingua di Dante, Leopardi, Jovanotti e Fabri Fibra sta guadagnando consensi, adepti, italianisti appassionati.

E perché non dovrebbe essere così? Lingua elegante, colta, musicale, facile da pronunciare, tranne forse che per gli orientali (e ben gli sta; a proposito, «gli dico» è corretto, come alternativa al noioso «dico loro»), una lingua senza suoni gutturali e con una piacevole e comoda parentela con il latino, che aiuta non solo i post-latini ma anche gli anglo-parlanti, visto che l’inglese è pieno di parole di derivazione romana.

Una lingua che ci ha insegnato parole belle come frassino, anima, lieve, trotterellano, morbido, sussurro, frinire, eloquenza, melograno, nebuloso, tintinnìo? Non morirà.

E pazienza se la maggioranza parla maluccio. Ridiamoci su se qualcuno vi spiega serio serio le sue «branchie» preferite del sapere: regalategli un pesce rosso e un pennarello blu. Pazienza per chi ci augura «buon (e non buona) fine settimana», perché i puristi sono noiosissimi: piuttosto i ben parlanti giochino con gli errori delle parole per riflettere sulle contraddizioni delle idee.

Limitiamoci alla parola «fine» in bilico tra maschile e femminile. Per togliere enfasi moralistica alla questione «fine vita» si dovrebbe cominciare a chiamarla «la» fine vita, visto che di questo si tratta, la parte finale della nostra esistenza, vale a dire il periodo che precede, fisiologicamente, ciò che vita non è più.

Non è giusto che si possa decidere di vivere dignitosamente anche quel tratto conclusivo del cammino? Non fa parte delle scelte di vita anche «la» fine vita?

E invece nel dibattito politico il tema è «il» fine vita, al maschile, e dà la stura a strumentali polemiche politiche che occultano il nodo filosofico: qual è il fine, lo scopo, il senso della nostra vita? Dove andiamo? E perché ci andiamo? È nonsenso, è mistero, è tragedia, è grazia? Il fine complica molto la fine.

E se il fine della fine settimana era l’evasione del weekend, che ne sarà del fine vita, alla fine? E se uno studente (ha denunciato una professoressa universitaria), insisteva nell’usare «emblematico» al posto di «contraddittorio», una maestra elementare insegnava ai suoi alunni, ignari, che nel paesaggio ci sono elementi costruiti dall’uomo, dunque «antropici», da cui si distinguevano gli elementi naturali, clamorosamente ribattezzati «tropici» (che caldo!, in quell’aula).

Ma, essendo infine il fine di questo articolo sostenere che nulla si può fare di fronte al peggioramento dell’italiano («itagliani!» li storpiava per il loro difetti il trentino di ascendenze sicule Ettore Petta, valoroso corrispondente da Vienna e cultore di Schubert) e nulla si può davanti all’inglese invadente a meno di essere francesi (gli unici al mondo che non si siedono davanti al computer, ma all’ordinateur) se non riaprire il vocabolario e gustare le differenze e le sfumature della lingua, il fine dell’articolo ci salva da qualsiasi ulteriore finalizzazione del discorso: «finalizzare» l’azione essendo - nel gergo del telecronista - il fine del centrocampista che imbecca, o imbocca, l’attaccante al fine di realizzare, alla fine del campo e prima della fine (the end) del match, il fine, cioè lo scopo, the goal, la mèta (occhio all’accento grave) ovvero il fine del gioco. Finalmente.

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