Monologo contro tempo per un vinile nero

Monologo contro tempo per un vinile nero

di Paolo Ghezzi

La musica, per noi, aveva una forma precisa, fisica, capisci? Una forma circolare, con solchi concentrici, alcuni più marcati, altri più leggeri, perfettamente regolari, come i cerchi di un tronco d’albero. Il colore era nero, lucente, rifletteva il lampadario della sala. Il disco lo dovevi...Il disco lo dovevi tenere delicatamente con i polpastrelli sui bordi, non appoggiarci le dita, per non costellarlo di impronte: l’unica digitalità dell’epoca.
 
Andava spolverato con cura, prima di essere messo sul piatto: con l’apposita spazzolina di velluto, o un panno antistatico. Sì, perché ogni granello di polvere poteva finire per sporcare il suono. Li chiamavamo 33 giri (perché quella era la loro velocità, 33 giri e 1/3 al minuto) oppure lp (ellepì), long playing, ma non erano poi così lunghi: anzi, mezz’ora al massimo per ogni facciata, niente rispetto alla playlist del tuo telefonino.
 
No, non potevi ascoltare l’album tutto di fila: c’era un lato A e un lato B, capisci? E spesso, per pigrizia, non lo giravi neppure, perché magari nel frattempo ti eri messo a fare qualcos’altro nella stanza vicina. E alla lunga i lati A erano molto più usurati dei lati B: a meno che la perla, il pezzo che più ti piaceva, non fosse stato inciso proprio sul lato oscuro della luna. Allora il B diventava il tuo A ideale: ma insomma, dovevi prendere posizione, o stavi con A o con B, da una parte o dall’altra, i lati non ti potevano essere indifferenti.
 
Mica potevi cancellare le canzoni più fiacche, come sul pc o sull’ipod. Potevi saltare un pezzo, certo, ma solo sollevando delicatamente la puntina e posizionandola pian piano sul solco successivo: manualità, ci voleva. Non bastava un clic di pollice. Non te li voglio idealizzare, quei grandi dischi neri, il suono non usciva immacolato e perfetto come dalle tue cuffiette digitali: i vinili soffiavano, strusciavano, scrocchiavano, scoppiettavano perfino, quando erano stati troppo ascoltati.
 
Questo però ce li rendeva umani, cugini: avevano le rughe come noi, il tempo li assediava e li usurava e li uccideva, come capita a noi. I loro fruscii ci salvavano dall’illusione asettica del suono perfetto: come il «fruscio di ragazze ad un ballo» (ti ricordi il suonatore Jones?) riproducevano memorie, nostalgie, emozioni. E le copertine? Non ti ho parlato delle copertine: alcune erano opere d’arte. Quadri. Da incorniciare. Le cover degli Yes, dei Genesis, dei Van der Graaf. Oniriche, barocche, lussureggianti, crepuscolari. Favolose. Grandi. Trenta centimetri per trenta. Per leggere i testi non dovevi usare il microscopio come sui libretti dei cd.
 
Il primo ellepì non si scorda mai. Il mio fu un regalo per la prima influenza al ginnasio. Catch Bull At Four. Di Cat Stevens, cantautore inglese di radici greche, non ancora convertito all’Islam. In copertina, appunto un toro, che un giovane monaco buddista prendeva gentilmente per le corna. Alle quattro, probabilmente. Dentro, pezzi favolosi come Sitting, Sweet Scarlet, The Boy With A Moon And Star On His Head e perfino una canzone con un testo latino, O Caritas. Un inno all’amore. Perché solo l’amore conta. E l’amore profumava di fragole, viole e vinili.
 
(A Trento, l’ultimo negozio di dischi aveva chiuso nel gennaio 2016).

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