Il sequestro Moro /29

Il sequestro Moro /29

di Luigi Sardi

“Questo fagotto gettato dietro il sedile posteriore della Renault color amaranto in via Caetanei è il corpo di Aldo Moro”. La giornalista Miriam Mafai sulla prima pagina di “la Repubblica” racconta agli italiani sbigottiti il ritrovamento del cadavere del presidente della Dc. “E’ un fagotto informe, avvolto in una coperta di lana color cammello, con un bordo di raso, una coperta come ce ne sono in tutte le nostre case. La macchina ha gli sportelli aperti…” perché all’indicazione di dove si trovava il corpo, gli artificieri si erano accertati che l’auto non fosse imbottita di esplosivo.

Trento, via San Francesco, nella sede della Dc e dalla cronaca di quel giorno presa dal giornale “Alto Adige” nelle edicole in edizione straordinaria. “La radio, la televisione, interrompono i programmi. Le quattordici sono passate da pochi minuti e dalla voci concitate dei radiocronisti, dalle immagini che compaiono sul teleschermi, la Nazione è informata dell’assassinio di Moro, crimine che, con il massacro di via Fani a segnare l’inizio di quel disumano capitolo di storia, resterà per sempre scolpito nell’infamia”.
Cinque persone sono sedute nella stanza, contrassegnata dal numero 2, della sede del partito, gli occhi fissi al teleschermo. Le immagini della televisione scorrono veloci; oltre 36 milioni di italiani vedono nel bagagliaio della R4 quel viso, quel corpo immobile semi nascosto dalla coperta. E’ l’ immagine di Aldo Moro assassinato – per fortuna nessuno scrisse o disse “giustiziato” – dalle Brigate Rosse. Si sente la voce del giornalista Emilio Fede, si vede la folla che circonda quell’auto, ondeggiare quando arriva Francesco Cossiga il Ministro degli Interni . Dopo aver sostato davanti a quel bagagliaio spalancato sul buio della ragione, tornato al Viminale, si dimetterà. Poi diventerà Presidente della Repubblica.

Passano i minuti, pochi per la verità, e nella spaziosa sede di via San Francesco arrivano gli iscritti alla Dc e poi gli altri. Sono tanti, tantissimi quelli che salgono le scale, due gradini alla volta. Ecco Mario Eichta, il giornalista Augusto Giovannini, il fotoreporter Giorgio Rossi che più volte, con Flavio Faganello, l’altro grande fotografo del Trentino, aveva fissato l’ immagine di Moro a Predazzo, Bellamonte, Cavalese, nei boschi della valle di Fiemme, ma anche in Valsugana e nel Primiero nei duri giorni dell’alluvione del novembre 1966 e a Trento nella chiesa di San Lorenzo assieme a Francesca Degasperi, la moglie di Alcide. Arrivano Ermanno Holler, Enrico Pancheri, Giorgio Cogoli, Fernando Cioffi, una donna con la tuta da operaia della Ignis di Spini di Gardolo, la famosa “cattedrale del lavoro” come la battezzò Flaminio Piccoli nel giorno dell’inaugurazione, Renato Vinante che piange appoggiato ad una scrivania. Maurizio Perego e Giacomo Santini espongono ad una finestra il Tricolore a mezz’asta e la bandiera bianca con lo scudo crociato del partito con un nastro nero, il simbolo del lutto. Arriva Francesco Simeoni il capo della procura della Repubblica. Si sente gridare “c’ è Zaccagnini alla tv”, ma del suo discorso s’afferra solo quel “resterà viva nel popolo italiano la sua testimonianza” quando arrivano gli uomini del Partito Comunista. Sono Enrico Paissan, Alberto Frioli, Biagio Virgili, Alberto Ferrandi all’ epoca segretario provinciale del partito. Ecco Giuseppe Agrimi segretario provinciale del Pri e Giorgio Tononi il Sindaco della città che convoca il consiglio comunale per una simbolica cerimonia di cordoglio. C’è il telegramma dell’arcivescovo di Trento Alessandro Maria Gottardi al segretario regionale della Dc Guido Lorenzi, il documento di Democrazia Proletaria, quello del Patt e il cordoglio della gente della valle del Fersina con la celebrazione di una messa nella chiesa di Sant’Orsola.
Nella redazione del giornale Alto Adige che si apriva su Piazza Pasi, il giornalista Mauro Lando raccoglie da Roma, nell’enorme confusione delle telefonate, la testimonianza di Bruno Kessler il politico che con Luciano Azzolini era stato vicino a Moro. “Sono angosciato… non nascondo di aver sperato fino alla fine in una soluzione diversa”. Certo, tutti gli italiani avevano accarezzato quella speranza. Anche quelli contrari ad ogni trattativa con le bierre perché nessuno poteva pensare che si potesse uccidere un uomo in quel modo dopo 55 giorni di estenuante, assurda prigionia. Perché solo 42 anni fa sembrava quasi normale, abituati come ci si era alla violenza politica, che nell’Italia nata dalla Resistenza c’erano addirittura le “prigioni del popolo”. E c’era, che orrore, la pena di morte mentre ci si affannava a stigmatizzare quegli stati che prevedevano la morte come pena suprema.
Si apprende che la famiglia ha fatto sapere “che deve essere rispettata la precisa volontà di Aldo Moro”. Quindi nessuna manifestazione pubblica, cerimonie, discorsi, nessun lutto nazionale, né funerali di Stato mentre cominciava la consueta carrellata dei dubbi: su dove Moro era stato tenuto prigioniero, su chi aveva fiancheggiato, protetto le Br, depistato le indagini, dove e come era stato ucciso. Il consueto polverone, le solite ipotesi. Oggi si consoce tutto. Tutto avvenne al numero 8 di via Montalcini.
La perizia balistica ha stabilito che sparò per prima la mitraglietta Skorpion, poi la rivoltella Ppk… “la posizione della vittima nel momento dello sparo di tali colpi deve essere stata quella nella quale fu ritrovata e osservata da uno di noi che intervenne immediatamente sul posto del ritrovamento. Colpito dalla raffica dello Skorpion, il corpo di Moro ebbe un sussulto, quindi si adagiò nella pozione in cui poi venne ritrovato e in quella stessa posizione venne raggiunto dall’ultimo colpo della mitraglietta e dall’unico e ultimo colpo della pistola calibro 9, che sembrerebbe il colpo di grazia”. Come si legge nelle pagine chi riportano l’accertamento balistico. La pistola Ppk, che aveva sparato quel colpo finale contro Moro fu poi trovata nel covo Br di via Silvani, a Roma.

Vale la pena ricordare quella telefonata ricevuta alle 12 e qualche minuto dal prof. Franco Tritto, amico di famiglia di Moro, che si trovava in casa del presidente con il compito di rispondere alle chiamate. A telefonare fu Mario Moretti. “Pronto? E’ il prof. Franco Tritto?” – Tritto: “Chi parla?” Moretti: “Il dott. Nicolai” – Tritto: “Chi, Nicolai?” Moretti: “E’ lei il prof. Franco Tritto?” – Tritto: “Si sono io” – Moretti: “Ecco, mi sembra di riconoscere la voce. Senta, indipendentemente dal fatto che lei abbia il telefono sotto controllo, dovrebbe portare un’ultima ambasciata alla famiglia” – Tritto: “Sì, ma io vorrei sapere chi parla” – Moretti: “Brigate Rosse, ha capito?” poi le indicazioni per trovare l’automobile con il corpo di Moro. Il brigatista parla con tono cortese, pronuncia un “mi dispiace”, usa due volte il termine “presidente” e tre quello di “onorevole”, quasi un segno di rispetto, un cenno di cordoglio. Sta tre minuti al telefono. Ma in quell’epoca le intercettazioni telefoniche erano quelle con le apparecchiature di quattro decenni fa.
Non c’è più la Democrazia Cristiana. Non c’è più il Partito Comunista. Non ci sono più le bandire bianche con lo scudo crociato né quelle rosse con la falce e il martello e i superstiti delle Brigate Rosse vivacchiano, convinti di essere stati partigiani come quelli che affrontarono il fascismo e la Wehrmacht dopo l’ 8 settembre del 1943. E scomparso un mondo. E’ finita un’epoca, i morti per mano brigatista sono ricordati solo dai parenti sempre meno numerosi dato il tempo che corre in fretta. Gli assassini, quelli sopravvissuti, sono da tempo liberi e la memoria di quelle giornate sta svanendo anche perché nelle scuole la storia viene insegnata male e la si dimentica in fretta. E poi il morbo maledetto che ancora ci assedia, ha ucciso uomini e donne molti dei quali sono stati testimoni di quelle buie giornate di passione. La prima e la seconda Repubblica sono un ricordo lontano, confuso, quasi svanito nel gorgo di mani pulite, insomma di politici e imprenditori e faccendieri nelle vesti di predoni.
E allora ci fermiamo sulle immagini che ci fanno più comodo o che ci appaiono più utili o, più banalmente, su quelle che ancora ricordiamo e così il miglior ricordo è nelle parole che nell’ora dell’addio Aldo Moro scrisse alla moglie: “Noretta dolcissima, sono nelle mani di Dio e tue. Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. Sii forte mia dolcissima in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore. Vorrei capire, coi miei piccoli occhi mortali come si vedrà dopo. Se ci fosse luce sarebbe bellissimo”.

Oggi rileggendo delle pagine dell’archivio la marea di ritagli di giornale che sono le cronache di quelle giornate, vengono in mente i versi di Giuseppe Ungaretti, il poeta del Carso nel tempo della Inutile Strage. “Cessate di uccidere i morti, non gridate più, non gridate. Cerchiamo di ascoltare le parole di chi è stato sacrificato. Esse hanno l’impercettibile sussurro, non fanno più rumore del crescere dell’erba. Lieta dove non passa l’uomo”.

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