Il sequestro Moro/27

Il sequestro Moro/27

di Luigi Sardi

Il brigatista carceriere entrò nel loculo e disse a Moro che “ogni speranza era perduta. Lui scrisse a sua moglie un’ultima, atroce lettera, che io ho letto solo dieci anni dopo. Fu recapitata immediatamente. Il giorno dopo era domenica. Come sempre gli registrammo la messa”. Anna Laura Braghetti intestataria dell’appartamento al numero 8, interno 1, di via Montalcini, la tragica “prigione del popolo” ha raccontato quindici anni dopo e in una trasmissione televisione, quei 55 giorni di agonia rivelando dettagli, particolari, anche minuzie dall’arrivo di Moro chiuso in una cassa, al suo omicidio. Ha detto che “nessun estraneo, nessun altro militante ha varcato la soglia di quella casa”; ha spiegato che la cella aveva “uno spazio sufficiente per una brandina e una specie di water (un cesso da campeggio) per i bisogni personali”.

Ha sempre confermato che l’interrogatorio era stato deludente. Nessun segreto sulla Nato, né sulla struttura segreta di Gladio. Soprattutto nessuna trama di stato, nulla sulla strage di Piazza Fontana. Aldo Moro non è mai stato filmato, solo fotografato con la Polaroid. Le due borse rapinate in via Fani dall’auto che trasportava il presidente della Dc “non contenevano nulla di importante, tanto meno documenti segreti. Le bruciammo”.

I carcerieri di Moro dopo aver sbandierato che ogni frase dell’ interrogatorio sarebbe stata resa pubblica, ripiegarono su un laconico, breve documento per dire che il processo sarebbe stato reso noto solo ai militanti. In verità Moro non custodiva segreti di sorta.
Braghetti afferma che non voleva la morte di Moro e “meditai seriamente di mettere la mia roba in valigia e andarmene. Potevo farlo. Avevo una casa (dove abitava un suo fratello), una vita intera a cui tornare. Non avevo tagliato ancora nessun ponte alle mie spalle. Ero in grado di uscire da lì. Nessuno mi sarebbe corso dietro. Nessuno avrebbe mai saputo niente”.  Invece il 12 febbraio del 1980 assassinò Vittorio Bachelet. Lei sparò per prima, poi sparò un altro brigatista: Bruno Seghetti. Poi ci fu la sparatoria a Roma, in piazza Nicosia dove morirono due agenti di Polizia. Perché non fece quella valigia? “Semplicemente, ci credevo. La fede rivoluzionaria, unita all’autodisciplina e la necessità di mettere le mie emozioni al secondo posto erano più forti di qualunque altra cosa”.

Un’intervista tranquilla, un racconto pacato, con qualche curiosità: i biscotti che Moro riceveva a colazione erano dello stesso tipo di quelli che mangiato a casa e la tovaglietta di raffia era sempre ben pulita e stirata. Solo che dietro quel racconto c’ erano sei morti,  la “geometrica potenza delle Br” che aveva riempito i giornali,  spaventata e ferita l’Italia, anche dalla mano di quella ragazza che, con una punta d’orgoglio, raccontava che per partecipare alla prima manifestazione di piazza, aveva falsificato sul libretto delle assenze dalla scuola, la firma di papà.

Decisero di uccidere Moro perché “se non lo avessimo ucciso avremmo ammesso che lo Stato era invincibile, la lotta armata inutile o impossibile”. I brigatisti parlarono più volte con Moro attorno all’ omicidio che stavano per compiere. Lui “argomentò che la pena di morte non esisteva in Italia dove la condanna massima è l’ergastolo. Lo giudicavamo colpevole? Benissimo. Lo condannassimo all’ergastolo. Mario Moretti gli rispose che non era possibile, non avevamo carceri, non avevamo la possibilità di tenerlo detenuto.

Allora Moro propose di lasciarlo uscire da lì, ma non da libero: una volta fuori si sarebbe dichiarato prigioniero politico, un prigioniero delle Brigate Rosse e avrebbe chiesto di scontare la pena in una delle carceri dove erano rinchiusi i nostri compagni. Sarebbe andato all’Asinara”. Lo ha scritto la Braghetti e il suo racconto è la vera storia di quella tragedia. Davvero, quei 55 giorni di Moro devono essere stati orribili, fra speranze e delusioni nell’altalena della trattativa e nella conclusione che vide la Democrazia Cristiana decidere di non decidere.
Anche il fondatore delle Br Renato Curcio confermò la trattativa per liberare Moro dichiarando: “Moretti mi ha raccontato che le Br avevano sincerante sperato di riuscire ad arrivare in un qualche modo ad una soluzione accettabile del sequestro senza dover uccidere” il prigioniero e “per ottenere questo risultato si erano mossi in varie direzioni e avevano aperto diversi canali riservati”. Era intervenuto anche Yasser Arafat.  

Da Beirut scrisse: “A nome del popolo e del rivoluzionari palestinesi, e a nome mio personale, chiedo insistentemente ai rapitori di liberalo perché siano salvaguardate l’unità del popolo italiano, la democrazia in Italia, perché la sua detenzione non possa essere utilizzata dai nemici della libertà, della pace e dell’umanità”. Il messaggio venne diffuso il 5 maggio e fu l’ultimo appello rivolto alle Br a livello internazionale dopo quelli del Pontefice, del maresciallo Tito, del presidente del consiglio di sicurezza dell’Onu, della Caritas, di Amnesty International sollecitato anche da Trento dall’avvocato Sandro Canestrini e della Croce Rossa Internazionale. Solo nel marzo del 1988 Giulio Andreotti dichiarerà che il Vaticano era riuscito a stabilire un contatto con le Br e che la Santa sede era disposta a pagare una somma che si suppone ingente, come riscatto. Lo confermò in una intervista aggiungendo “ma non voglio entrare in particolari” forse perché – ma questa è solo una ipotesi – uno degli assassini di via Fani è figlio di un alto funzionario del Vaticano.

Fra il 6 e il 7 di maggio tutti i quotidiani diffusero il “comunicato numero 9” passato alla storia come il “comunicato del gerundio” per via di quel “eseguendo la sentenza”. E proprio attorno a quell’ “accidente del verbo”, il gerundio è, in vero, un po’ ostico, si accesero e si afflosciarono le speranze degli italiani. Il “comunicato” venne diffuso contemporaneamente a Milano, Roma, Torino, Genova e – forse – a Mestre. La solita valanga di righe perché i compagni avevano preso il vezzo dalla “Pravda” e dall’ “Unità” di stampare pagine così fitte di pensieri da diventare una sorta di deserto della comprensione e anche della pazienza del lettore. Si capì che il dramma era giunto alla conclusione perché dopo oltre 50 giorni i brigatisti dovevano decidere. Logisticamente, il sequestro di Moro non poteva continuare. Dopo lettere, comunicati, proposte, le Br proclamarono:  “la parola alle armi” con quell’eseguendo – appunto il gerundio – che per molti sembrava aprire uno spiraglio.

Si discusse, si sperò, si sottolineò che la frase “concludiamo la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza cui Aldo Moro è stato condannato” accendeva ancora una speranza, soprattutto sofisticando che quell’eseguendo non era un tempo definito, tipo “la sentenza è stata eseguita”, ma esaltando l’ambiguità brigatista, faceva scivolare il messaggio in un ultimo, o penultimo bluff. Pochi si erano accorti che era finito il torrente delle lettere del prigioniero che chiedeva – e i suoi carcerieri erano ovviamente d’accodo – lo scambio. Sarebbe bastato leggere nell’arma cartacea del  “comunicato” quel “perché la nostra proposta di uno scambio di prigionieri politici perché venisse sospesa la condanna e Aldo Moro venisse rilasciato, dobbiamo soltanto registrare il chiaro rifiuto della Dc, del governo e dei complici che lo sostengono” quasi a voler dire che la condanna a morte era stata pronunciata da governo, politici, insomma dal sistema dello stato imperialista delle multinazionali che ha negato “la libertà in cambio della libertà”. Ma nel “comunicato numero 9” c’è ancora un capitolo. L’annuncio di morte è stato inviato alle organizzazioni comuniste combattenti, al movimento rivoluzionario, a tutti i proletari. Non era mai successo prima.

Le bierre avevano capito che la strage di via Fani e il clamoroso rapimento avevano creato una rottura nella sinistra più accesa. Bisognava dare una risposta, riaccendere il mito della geometrica potenza. Per farlo, si doveva uccidere anche se avevano capito che Moro era un uomo mite e completamente indifeso.
(27.continua)

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